FILM: Paura e Delirio a Las Vegas (1998)
Da dove cominciare? Paura e Delirio a Las Vegas è un
concentrato di elementi inqualificabili che fa dello stesso film un prodotto
quasi impossibile da analizzare, ma ci proviamo lo stesso. Verso gli inizi
degli anni ’70, un giornalista e il suo avvocato partono alla volta della città
del peccato (che stavolta non è quella di Millar) per realizzare un servizio su
una gara motociclistica. Fin qui tutto normale, se non fosse per un piccolo
dettaglio da non trascurare: la droga. I due protagonisti (Depp e Del Toro)
sono infatti dipendenti da tutte le droghe esistenti in quel momento in America,
e tale loro lieve debolezza stravolge completamente l’intera esperienza del
film. Ciò porta la trama a passare in ultimo piano per lasciare spazio al
Delirio a cui i due personaggi molto sopra le righe vanno in contro; a parte
poche scene, infatti, si potrebbe dire che, agli occhi di uno spettatore
esterno, non accade nulla di rilevante sullo schermo.
Le scene più ispirate sono quindi indubbiamente quelle
che vedono Depp in preda agli effetti degli stupefacenti: la sequenza con i
dinosauri raggiunge vette di nonsense esilaranti, ma il vero culmine è la
ricostruzione della sera precedente nel secondo albergo di Las Vegas. Pazzia totale.
Da questa analisi emerge quanto le due interpretazioni siano state fondamentali per la resa delle
scene alterate. Due maestri che vent’anni fa promettevano decisamente molto
bene.
Una componente purtroppo troppo ridimensionata ad un’analisi
complessiva della pellicola è quella storica: la situazione statunitense in
quegli anni, indubbiamente interessante e ricca di spunti utili allo sviluppo
di una trama più consistente, viene rapidamente liquidata senza grandi giri di
parole. Ma forse l’obiettivo del veterano Terry Gilliam era un altro.
A parte un paio di monologhi interessanti e profondamente
veri, dunque, il film non presenta ulteriori contenuti degni di nota che
conferiscano uno spessore all’opera. Ci troviamo “solo” di fronte alla
delirante descrizione della mente di un individuo perennemente sotto l’effetto
di stupefacenti di ogni tipo, e se
dovessimo valutare il prodotto unicamente sotto questo aspetto il voto sarebbe
buono perché complessivo di una regia interessante, delle interpretazioni
fantastiche, della novità, della comicità e del coraggio necessario per portare
sul grande schermo questo agglomerato vuoto. Ma basta questo per fare un film? Forse
si. VOTO: 8
FILM: Invictus (2009)
Clint Eastwood è una certezza, Morgan Lucius Freeman un pilastro
del cinema mondiale, Matt Damon un grande attore troppo spesso sottovalutato.
Nelson Mandela è invece il simbolo di una generazione. Di un mondo che forse
non esiste nella realtà, più ma che alberga nei nostri cuori. L’utopia vivente
che ha fatto la storia col silenzio e con il perdono.
Invictus è la storia romanzata dell’insediamento di
Mandela in Sud Africa e dei mondiali di Rugby del 1995. Eastwood cerca di
ridare voce ad una favola dura mai davvero raccontata attraverso un punto di
vista interno che il mondo potrebbe non aver colto a suo tempo. L’incipit è di
altissimo livello e lo spettatore riesce in pochi minuti a focalizzare l’attenzione
sul momento storico e politico descritto dalle immagini. Lo sviluppo è
convincente fin quando la storia riesce a svilupparsi su due binari in maniera
bilanciata. Quando invece l’attenzione si sposta quasi unicamente su Damon e
sulla sua squadra, la tensione venutasi a creare precedentemente sfuma
gradualmente verso una scalata sportiva per niente elettrizzante ed
appassionante. I match di rugby non prendono lo spettatore (o almeno non me) e scorrono
via senza lasciare traccia, denotando una carenza in questo genere specifico
per quanto riguarda il grande Clint. Sottotrama che prende il sopravvento in
maniera totalmente antiadrenalinica.
Il vero fulcro dell’opera è colui che sarebbe dovuto
essere il protagonista per l’intera durata del film: Nelson Freeman. Il vecchio
Morgan è infatti una controfigura perfetta del politico sudafricano e, in ogni
inquadratura in cui è presente polarizza l’attenzione riempiendo la scena in maniera
unica. Una storia più nelsoncenrica avrebbe giovato alla narrazione e avrebbe
nascosto le lacune di Eastwood in modo più convincente.
Un plauso particolare va fatto ad una scena meravigliosa
che da sola vale tutto i prezzo del biglietto, ovvero quella in cui la squadra
sudafricana è chiamata ad incontrare un gruppo di disagiati bambini neri. L’apice.
Valutando il film nel complesso non posso però astenermi dal denotare una netta
carenza nella seconda parte, dovuta in particolar modo al cambiamento
discutibile del protagonista. Il voto è quindi la media tra la prima e la
seconda parte, il tutto amalgamato dall’irraggiungibile qualità del regista
premio Oscar. VOTO: 8
ALBUM: Saint Cecilia EP (2015)
I Foo Fighters ritornano (anche da seduti) e tentano un
ritorno a sonorità passate con un EP nostalgico, compassato, ma anche
convincente, formato da cinque brani. Il primo pezzo, che poi da il nome all’intero
EP, sembra davvero tornare agli inizi dei 2000 con una chitarra ispirata e la
voce di Dave (Davide, se siete di Cesena) ruvida e graffiante come un tempo. Un’ulteriore
conferma delle immense potenzialità della band dell’ex batterista dei Nirvana. Le
altre quattro canzoni invece sembrano essere un po’ meno innovative basandosi
su sonorità più tradizionali; ma il livello riamane comunque alto.
Molti gruppi raggiungono l’apice della loro produttività molto
presto, continuando poi a trascinarsi senza più molto da dire, da cantare. I Foo
Fighters invece spostano sempre più un passo oltre il loro apice e continuano
un percorso musicale talvolta sottovalutato, ma di indubbio valore. Una mosca
quasi trasparente. VOTO: 7