giovedì 20 luglio 2017

PERCHÉ L’INDIE ITALIANO È GIÀ MORTO

Il 2016 è stato l’anno della svolta: centinaia di migliaia di giovani mossi da nuove sonorità, nuovi idoli, nuovi orizzonti. È possibile che questo movimento abbia già esaurito il suo slancio vitale? Ma facciamo un passo indietro: cos’è l’indie? Potremmo dire che individuare una data d’inizio del genere indie sia pressoché impossibile, sia perché esso è nato contemporaneamente alla musica prodotta dalle major discografiche, sia perché definire l’indie un “genere” sarebbe alquanto improprio. Se per indie intendiamo tutto ciò che esula dalle produzioni maggiori, allora si perde il senso di univocità musicale per una definizione puramente tecnica. Culturalmente siamo abituati ad identificare un possibile genere musicale indie con la scena britpop o quella dell’underground americano anni ’90. Ma il 2016 italiano ha avuto il merito di riscrivere questo genere in un’accezione propriamente nostrana.


Il 2016 è stato l’anno di Calcutta e di Motta, degli Ex Otago e dei Cani. L’anno di Cosmo. Artisti che hanno saputo esprimere un pop italiano che andasse fuori dai canoni della musica leggera, esaudendo i desideri di una larga schiera di ascoltatori alla ricerca di una rappresentazione musicale nostrana in cui ritrovarsi. Avevano compreso il senso della musica indipendente: slegata da un commercio intensivo, ormai ristagnante, e libera nell’espressione di un gusto artistico nuovo per il pubblico italiano meno abituato ad un ascolto internazionale. Non avevamo compreso noi il senso di un anno zero per la musica, confondendo l’arte e la modalità di fruizione del prodotto.
L’esempio che ha rotto gli argini della finzione è stato “Cambogia”, artista indie in rampa di lancio, rivelatosi un troll costruito fin dalle prime note per sperimentare la facilità dell’ambiente indie italiano, ormai assuefatto da prodotti troppi simili per poter essere ancora l’espressione di quella genuina libertà iniziale. La rivelazione sulle pagine di Noisey, a metà tra sfottò e venerazione per quello che a tutti gli effetti è diventato realmente un punto di riferimento del genere musicale.

"Cambogia non esiste. Cambogia è un personaggio di fantasia creato da Ground's Oranges. Il progetto nasce ad agosto 2016 come estremizzazione della figura del cantante indie e come esperimento sociale volto a sottolineare la maggiore importanza attribuita all'hype rispetto alla reale proposta musicale. Andrea, che voi identificate come Cambogia, non sa cantare e non sa suonare, non è nemmeno un attore, è solo un amico che ha prestato il volto giusto a questa causa. [...]”

Cambogia ha smascherato un’industria florida, alimentata dalla necessità popolare di un nuovo canone obsoleto. Il movimento indie è esondato, ha  trasceso l’essenzialità della componente musicale - ormai riconducibile un modello standardizzato - per rispecchiarsi in un canone umano in linea con i tempi. E questa semplificazione della realtà che sta dietro la composizione artistica ha definitivamente affossato l’originalità degli artisti che si affacciano nel mondo indipendente. Non è più lo sfogo artistico di una generazione oppressa in un paese immobile, ma il nuovo canone “artistico” che ha cristallizzato nuovamente il movimento giovanile, impedendogli un progresso rilevante. E qui muore il movimento indie, quando non è più in grado di rappresentare l’innovazione della scena musicale pop, ma contribuisce solamente ad affossare l’aspirazione di una nuova discografia. I legami che potevano rendere l’ambiente unito da nord a sud, si sono rivelati catene dell’anonimato, le maschere bruciate da Cambogia.


Ma tanta parte di questo fallimento artistico nostrano è da attribuire al pubblico di questa nuova ondata musicale, nel quale, per certi versi, mi includo, avendo creduto, agli albori di questa realtà, che l’indie, inteso come contenitore, potesse risollevare le sorti di un mercato senza futuro. Noi fruitori abbiamo trasceso la musica alla ricerca di una forma di riconoscimento sociale che ci portasse verso il futuro, e invece siamo caduti nella melma del riciclo di un mondo passato, che nulla propone di nuovo, se non un paio di synth. Avevamo bisogno di identificarci in qualcosa, invidiosi del metal sottobosco e della crescente ondata trap, ma altrettanto altezzosi da non ammettere le nostre necessità.



Il movimento indie italiano, sia come contenitore di sperimentazioni che come genere vero e proprio, è già morto. Restano però alcuni artisti, coloro che sono stati inclusi in questo fallimento che arranca e che invece meritano di sopravvivere alla fine del genere. Che probabilmente sono sempre stati mossi da un’altra aspirazione: la musica. Iosonouncane, Cosmo, Populous, Motta.

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