domenica 16 ottobre 2016

SERIE DI CUI NON PARLERÒ: LOVE

Netflix è sinonimo di qualità, ma qualità non è sinonimo di buona riuscita, o almeno non sempre.
Love è una serie che si muove nel quotidiano delle vite dei due protagonisti, e vorrebbe narrare in maniera realistica le dinamiche della nascita dell’amore tra due individui molto diversi tra loro. Gus è un ragazzo impacciato, perennemente fuoriposto. Non segue le mode, non frequenta i posti più quotati e vive le sue giornate nella periferia, rischiando poco, sporgendosi poco. Mickey è invece una sfacciata ragazza del ventunesimo secolo: un po’ depressa, un po’ infelice, un po’ distaccata dalle sue coetanee più in vista, un po’ frustrata dalle situazioni che le sono sfuggite di mano. Due personaggi diversi, sì, ma accomunati dalla stessa estrazione sociale, quella degli emarginati dalla comunità fondata sull’esibizione e sull’esibizionismo. Sboccerà l’amore tra i due, ma sarà qualcosa di indefinitamente spigoloso, lontano dalle correnti comuni e distante dalle concezioni moderne di relazione fissa.


Alla luce delle premesse, Love poteva essere un’altra bella sorpresa targata Netflix, ma alla fine dell’ottavo capitolo - di dieci - ho deciso che non avrei portato a termine la serie. Il problema è molto semplice: pur riuscendo a centrare il clima e il realismo, Love non ha in sé la vis comica per riuscire a intrattenere. La scelta di puntare tutto sul realismo della relazione ha portato ad un’esagerazione delle dinamiche che volevano allontanarsi dai canoni televisivi e cinematografici. In questo modo però anche i tempi comici hanno perso di valore, producendo soltanto una serie di situazioni disdicevoli, allungate e boriose, caratterizzate unicamente da dialoghi inconcludenti. Questa politica seriale è stata portata avanti in particolar modo attraverso il personaggio di Gus che, con la sua inevitabile inappropriatezza, riesca a risultare imbarazzante in ogni situazione. Ogni contesto, battuta, dialogo con un personaggio secondario è un ottimo pretesto per scatenare nello spettatore e nello stesso protagonista un senso di assoluto imbarazzo. Proviamo realmente vergogna per ciò che Gus fa e dice, vorremmo essere con lui per evitare il peggio e fermarlo prima che smarrisca la faccia, e con essa la dignità; ma ciò non è possibile e ci troviamo inevitabilmente invischiati in un processo per cui la vergogna diventa quasi la nostra. Nulla da dire sulla costruzione di questi frangenti, se non che non riescono mai a scatenare ilarità. Ci si guarda attorno in uno stato confusionale cercando di capire se siamo noi a non aver colto la battuta, se siamo noi a reagire su tempi comici sbagliati e obsoleti, o se sia la serie a mancare evidentemente in questa sua componente, che suppongo sia quantomeno fondamentale se si parla di una serie comedy.
A lungo andare queste situazione scabrose diventano fastidiose e a tratti insopportabili. Si è spinti a guardare non per le emozioni che lo spettacolo riesce a trasmettere, ma solamente per cercare di capire dove gli sceneggiatori vogliano andare a parare con una trama che mostra comunque pochi guizzi. Diventa una noiosa agonia scoprire cosa si celi nel futuro dei due innamorati emarginati.
Eppure la serie era partita con il piglio giusto, un episodio davvero ben riuscito nel quale venivano presentati i personaggi in situazioni probabilmente più caricaturali. In contesti simili, le loro qualità imbarazzati parevano meglio inserite nel tessuto complessivo e lo spettatore poteva ridere di una festa di vicinato finita male o di un triangolo incestuoso. Ma da quel momento in poi la serie ha sparato molti colpi a salve, come la questione della cena per farli conoscere e la serata magica. Elementi che in questo mood generale non hanno fatto altro che allontanare l’interesse comune.

Non tutte le serie Netflix escono col buco.

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