sabato 8 ottobre 2016

WOODY ALLEN, IL PIANO JAZZ DELLA VITA E LA MORTE

Le parole per descrivere questo personaggio unico sono finite da tempo immemore. Il percorso che porta alla leggenda necessita di un tempo di assimilazione delle conflittualità per poter restituire un artista coerente; per quelli che riescono ad entrare nel modus pensandi di Woody questo processo ha già avuto inizio da tempo. Queste persone riescono a vedere nel piccolo e nevrotico Newyorkese allo stesso tempo l’uomo e il mito che un giorno sarà chiaro a tutti.


L’ultima non-fatica di Allen è Café Society, opera agrodolce che ci porta nell’America degli anni trenta, abbracciando contemporaneamente la poetica New York e la teatrale e sfarzosa Hollywood. Jesse Eisenberg è Bobby, giovane ebreo dell’Ovest in cerca di nuove possibilità nella terra del cinema, dei divi e delle feste agghindate. Kristen Steward è invece Vonnie, affascinante segretaria dello zio del protagonista. L’incontro tra i due porterà alla passione amorosa e ai progetti di vita, ma non sempre la donna giusta rimane fino alla fine della festa. Non sempre la donna giusta resta.
Con Café Society, Allen prosegue il suo mosaico di una civiltà in continuo movimento, ingabbiata dai fuochi dell’amore e della razionalità. Tutto si gioca su questi due piani tangenti e intangibili. I protagonisti dell’opera tentano di far valere le loro speranze e aspirazioni al di sopra dello scorrimento del fiume della vita, ma restare asciutti risulta impossibile, e allora ci si veste di ciò che si trova sulla riva. Si rubano le movenze di chi galleggia e si resiste. Si vince, talvolta per fortuna, talvolta per caso, ma cosa resta del sogno che ci aveva mossi all’azione? Allen indaga questo complesso rapporto tra realtà differenti che finiscono sempre per trasportare gli individui al di là dei loro lidi, portandosi via anche i valori, e con loro i veri protagonisti. Il Bobby che ritroviamo dopo il salto temporale ha ormai adottato un abbigliamento che non gli apparteneva, quando sognava di sopravvivere d’amore a Greenwich Village. La prima giacca con cui si presenta a Hollywood è di un triste e spento marrone, l’ultima con cui festeggia il capodanno dell’anno più triste è di uno splendente e candido bianco. Tutto ciò che ci circonda è in movimento, viviamo a cavallo delle sfere personali di miliardi di individui, e molto spesso le sfere più adiacenti allo nostra rientrano nel nostro universo per effetto di una fagocitazione insaziabile. Così facendo non siamo più protagonisti indiscussi delle scelte che reggono il timone della nostra barchetta nel fiume tempestoso. Un giorno ci rendiamo conto di essere arrivati dove non credevamo, e forse non volevamo. Dal Marrone allo splendore: dove è finito Bobby? È probabilmente rimasto nella bettola messicana, luogo di infiniti sguardi incondizionati. È questo infatti l’unico modo per sopravvivere in una società mascherata che vive di posizioni sfarzose, nomi altisonanti e bicchieri di champagne, mantenere attiva una realtà sognante. Mantenere viva la possibiltà di attraversare il paese con la mente per ricongiungersi con chi avremmo voluto essere, le giornate di sole che avremmo voluto trascorrere in riva all’Oceano, le cenette romantiche a lume di candela e respiro di vino. Non è una consolazione, ma lo scarto reale che ci tiene incollati alla nostra vera vita, che scorre lenta e silenziosa dietro il frastuono degli spari e dei flash.


Il finale lascia con l’amaro in bocca. Un gusto che permane ancora, perché quello di Allen è ancora un crudo realismo vestito da armonioso allestimento. Sulle note finali, con sguardo sognante, ci rendiamo conto di aver sacrificato qualcosa per arrivare fin qui. Ma per chi? Forse per continuare a galleggiare e non andare a fondo nel fiume senza fine, che a volte ci stringe le caviglie come sabbie mobili e ci ruba il pensiero.


Il fiume è senza fine, ma ahimè le anime che lo compongono un giorno lasceranno il posto ad anime nuove. La morte è presente anche in questo film, come in molti altri capolavori del maestro dell’ipocondria. La falce segue attenta le vicende e non manca di colpire. Il discorso sul paradiso degli ebrei è una riflessione da non sottovalutare, che ridà un altro significato ad alcuni momenti di decadenza pura dell’opera. Cosa abbiamo concluso, cosa sarebbe stato giusto. Cosa ha senso se tutto ha fine certa? Ogni anno Woody Allen ci riprova, e aggiunge qualcosa al suo meraviglioso affresco. Ogni nuovo film di Woody Allen potrebbe essere l’ultima pietra miliare di un’immensa carriera, e quindi, ogni volta che guardo un suo film, so che manca una pellicola in meno all’ultima opera, e questo mi rattrista. Ancora rido per un gruppo di gangster che risolve le questioni di vicinato nel cemento, ma rido a due facce. La falce del metacinema pesa.
Grazie ancora una volta e sempre, Woody.

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