venerdì 7 ottobre 2016

FIVE BY FIVE #16

Ri-benvenuti in questa piccola piccola rubrica gentilmente ospitata su questo Blog, rubrica che con oggi arriva alla sua sedicesima puntata. Almeno credo, non do troppa importanza ai numeri. Eppure dovrei, che sono importanti: per esempio è appena uscito l’album numero dodici dei Green Day, che potrebbe essere una gran bella notizia se non fosse per altri tre numerini, Uno!, Dos! e Tre!. Al quatro tentativo non ci casco. Se però è successo il miracolo e Revolution Radio – questo il titolo dell’album – è perfino meglio di American Idiot allora ditelo, o scrivetelo che rimedio. Nel frattempo vi consiglio come al solito cinque pezzi novi novi che potreste esservi persi nel vorticoso turbine settembrino.  


Ben quattro anni hanno aspettato i Dirty Projectors per fare nuovamente capolino dal luogo magico da cui provengono. Dopo l’abbandono di Angel Deradoorian ci sarà quindi un seguito agli ottimi Swing Lo Magellan e Bitte Orca, giusto per citare  gli ultimi e probabilmente più celebri loro album. Da un primo ascolto di Keep Your Name però, pare che davvero il nome sia tra le poche cose, se non l’unica, rimaste dei “vecchi” Projectors: mancano i riff di chitarra alla Steve Howe, mancano i continui cambi di ritmo, manca quella la complessità, quell’intreccio di voci tipico dei loro lavori. Di fatto Keep Your Name è un pezzo hip-hop e l’unica labile traccia del passato sono le classiche percussioni gommose udibili di tanto in tanto (oltre ad un loop di piano preso in prestito da Impregnable Question, come qualcuno ha fatto notare). Forse i fan di lunga data storceranno un poco il naso ma per quanto riguarda il sottoscritto Keep Your Name è un gran bel pezzo e fa ben sperare per questa inedita versione della band statunitense.



Capito a Berlino qualche settimana fa e ovviamente non manco di fare una tappa a Kreuzberg per osservare da vicino la fauna hypster nel suo habitat naturale: i ristoranti vegani (ossimoro?). Nel pieno della mia deriva psicogeografica la mia attenzione viene catturata da un gigantesco murales che occupa tutta la facciata di un palazzo. È davvero immenso, anche perché per qualche oscura ragione i palazzi a Berlino non hanno le finestre sui lati, quindi lo spazio per dipingerci è notevole. Su l’intera parete campeggia quindi un numero, 715, un testo piuttosto criptico, ma soprattutto l’altrettanto criptica copertina del nuovo album dei Bon Iver. La trovata pubblicitaria è geniale, ma a dirla tutta non era poi così necessario un tale dispendio di energia (e vernice): ogni album della band di Justin Vernon è di per sé un evento, considerando che tra una pubblicazione e l’altra passano ere geologiche. Su 22, A Million si potrebbero fare un mucchio di considerazioni, ma mi limito a parlare di uno dei pezzi secondo me migliori dell’album: 33 “GOD”  sintetizza al meglio lo spirito che permea l’intero l’album, la sua anima comunque ancora folk, la sua veste elettronica e tuttavia mai fredda o asettica e i frutti raccolti dopo i vari flirt con l’hip-hop.



Hanno cambiato nome ma la sostanza è rimasta quella ermetica, misteriosa e celatamente violenta – in una parola post-punk – di prima. I Preoccupations (f.k.a. Viet Cong) sono tornati con un album eponimo che per molti versi sembra il fratello del precedente. Nello specifico Memory potrebbe essere la “sorella” di Death data la durata simile (10/11 minuti) ma le somiglianze si fermano qua. Se nella sorella maggiore Matt Flegel cantava praticamente per tutta la durata del pezzo, accompagnato da schitarrate aggressive in un crescendo caotico, nella nuova si contano poche, indecifrabili righe, una linea di basso preponderante, drum-machine e una lunghissima coda strumentale, quasi ambient, che data la posizione centrale della canzone (è la quarta traccia) spezza letteralmente l’intero album in due metà. 



In quel di Los Angeles sono ormai lontani i tempi del punk hardcore o del glam-rock che ne facevano nel bene e nel male un punto di riferimento della musica d’oltreoceano e non solo. Non è blasfemo dire che oggi la Città degli angeli non ha più una “forma” definita, almeno dal punto di vista della musica. Non è quindi così strano che una delle novità più interessanti di quelle parti non mantenga nessun legame con la tradizione. Cherry Glazerr è il progetto – inizialmente solista, poi evolutosi in vera e propria band – di Clementine Creevy e il loro nuovo singolo sembra attingere dalla scena rock britannica di una decina di anni fa (Arctic Monkeys e compagnia per capirci) piuttosto che dalla scena autoctona. Il potente riff di chitarra in particolare ricorda quello di The Fallen dei Franz Ferdinand, come mi è stato fatto notare. Al di là delle influenze che si possono o meno trovare, Told You I’d Be With The Guys è una bella canzone e questa ragazza è da tenere d’occhio.



Per chi non li conoscesse, i BADBADNOTGOOD sono un gruppo jazz canadese. Dire jazz in realtà è piuttosto riduttivo, in realtà non disdegnano affatto incursioni in altri generi. Quest’anno hanno pubblicato un nuovo album, ma soprattutto hanno messo lo zampino in una caterva di altri dischi, con risultati è sempre ottimi. L’ultima manina l’anno offerta all’esordiente Mick Jenkins – di cui è appena uscito l’album The Healing Component – nel singolo Drowning. La canzone e il video sono già di per sé densi di significato, soprattutto se contestualizzati nell’America di questi ultimi mesi – difficile rimanere indifferenti a quell’ “I can’t breath” ripetuto più e più volte – e l’andatura flemmatica della linea di basso che accompagna tutti i sei minuti del pezzo cla perfettamente l’ascoltatore nella parte, ti inonda i polmoni fin davvero ad affogare, schiacciato dalla realtà che la voce calda del giovane rapper ti posa placidamente nel piatto.

Marsha Bronson

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