Guy Ritchie ci riprova senza successo. Il suo stile
personale fatto di montaggio frenetico, rallenty e musiche tendenti al mondo
celtico stavolta non è riuscito propiziare il ritorno di un mostro sacro della
letteratura anglofona. Le premesse di una sequenza d’apertura meravigliosa
vengono disattese da una scrittura infantile e da una narrazione che non tiene
conto degli spazi che lo stile eclettico del regista richiede.
La trama di “King Arthur - il potere della spada” non
spicca certamente per originalità e vorrebbe imporsi al grande pubblico proprio
cavalcando le modalità dell’autore inglese, ossia sovrapponendo diversi piani
temporali per produrre una storia semplice, ma complessa. Il problema è che, a
differenza dei due Sherlock Holmes, King Arthur non rispetta i requisiti
necessari di unità d’azione e di tempo che lo stile di Ritchie richiede per non
sembrare sopra le righe, ma solo normalmente sfrontato. Uno sviluppo della
trama, diluito nel corso di un tempo della storia decisamente maggiore,
costringe l’autore di “Snatch” a ricorrere ad una sere di topoi della sua
produzione in più occasioni, talvolta riuscendo ad intrattenere magnificamente,
talvolta risultando fuori luogo. La sequenza in cui Art cresce nei bassifondi
di Londinum è un perfetto esempio della prima situazione, quella dell’addestramento
disumano per padroneggiare Excalibur lo è in senso opposto.
Altro enorme problema del film è la giustificazione degli
eventi e delle scelte del protagonista, le quali sono spesso il frutto di una
maturazione avvenuta in appena due minuti di montaggio frenetico. La scelta di
proporre un Artù alternativo, cresciuto nei bassifondi e abituato a comportarsi
da capobanda di una cricca di delinquenti, da una parte ha dato una nuova caratterizzazione
ad una figura letterario lontana dal nostro gusto odierno, dall’altra ha però
rese necessarie nuove motivazioni che muovessero le azioni dell’erede al trono.
Queste motivazioni vengono fornite in maniera del tutto innaturale, spinte da
un gruppo di rivoluzionari anonimi e mal introdotti nella narrazione. Emblematica
per la pochezza delle giustificazioni del caso è la scena dell’incontro tra Art
e la dama del lago, che lo spinge a tornare per l’ennesima volta sui suoi passi
e ad accettare il compito che il fato sembra avere in serbo per lui.
I personaggi secondari inoltre - ad eccezione del villain
interpretato da Jude Law - appaiono piatti e il film, che in partenza sembra voler
dare uno spazio maggiore ai compagni del protagonista e agli oppositori della
corona, si riduce ad essere un’opera Artucentrica, in cui ogni personaggio
agisce in funzione del protagonista e non sembra avere una dimensione ulteriore
in grado di risaltare al di sopra di una trama banale e scontata, indirizzata fin
dal primo secondo allo scontro finale. Ad essere problematico però è anche lo
scontro finale, come la maggior parte dei duelli che riempiono il film a
partire dal momento in cui Art riesce a dominare il potere di Excalibur. Da
quel momento in poi, l’opera di Ritchie sembra virare volontariamente verso un
gusto videoludico piuttosto che cinematografico, esaltato dai rallenty, dalla
computergrafica e dalla fotografica che si scurisce nelle scene di lotta. Quando
gli occhi del protagonista diventano azzurri, il linguaggio cinematografico, la
costruzione dell’immagine lasciano il posto ad un combattimento da action
arena.
“King Arthur - il potere della spada” potrebbe anche
piacere a chi non è in cerca della logica ferrea, a chi si accontenta di vedere
trasposto sullo schermo un videogioco a tratti esilarante. Ma quando il regista
di “Lock and Stock”, di “Rock’n’rolla”, di “Sherlock Holmes” e soprattutto di “Snatch”
si limita ad un lavoro quasi passabile non posso che dissentire dagli esiti. Un
lavoro di Ritchie privo della vena istrionica, della verve, della violenza e
dell’intelligenza di Ritchie non può considerarsi un’opera riuscita.
Il flop di Guy Ritchie non è l’unico film in uscita
questo maggio ad avermi lasciato con l’amaro in bocca all’uscita della sala. Anche
“Alien: Covenant” diretto dal maestro Ridley Scott non era riuscito a
risollevare le sorti della nuova tetralogia sugli xenomorfi. Un mese dunque
ricco di aspettative disattese e povero di emozioni sorprendenti. Un mese che
potrebbe chiudersi con un ulteriore colpo al cuore nel caso in cui il vecchio
Jack Sparrow non riesca a rimettersi in sesto a dovere nella fuga contro l’ottimo
Salazar.
Qual è il comune denominatore di King Arthur e di Alien? Credo
che la lente d’ingrandimento vada posta sul rapporto tra queste grandi
produzioni popolari e il pubblico stesso, che spinge sempre più verso una logica
spicciola, traina verso il basso il collettivo e si appaga di un gusto poco
cinematografico, più vicino alla serializzazione televisiva almalgamata con il mondo videoludico. In entrambi i casi, forme lontane dalle possibilità di un’espressione
artistica, che producono un immediato appagamento, il quale però non si traduce
in un’emozione duratura, ma termina nell’attimo della visione. Il tutto guidato
dalla logica dell’approvazione popolare, che può arrivare attraverso i ricavi,
ma che funziona benissimo come deterrente per future produzioni legate al
brand.
“Blade Runner”, dello stesso Ridley Scott aveva prodotto
appena cinque milioni di dollari di utile. “Donnie Darko” fu bollato come
fantascienza di serie b, intricata e mal realizzata. I critici stroncarono “Fight
Club” di Fincher, prima che il pubblico si rendesse conto della portata
rivoluzionaria dell’opera. “Il grande Lebowski” fu ritenuto vuoto e insensato. “Quarto
potere” fu un flop clamoroso alla sua uscita nelle sale americane. E potrei
proseguire ad oltranza.
Il cinema è idea su schermo, immagine in movimento che
cerca di rendere comunicabile la fantasia dell’autore. E un prodotto nato per
soddisfare altri, incastrato in una forma mutilata, sta perdendo lentamente il
senso della settima arte. Ciò che conta è l’idea che sta alla base e il gusto
con la quale viene resa sullo schermo. Tutto il resto fa volume.
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