Ampliare la mitologia, la lore di una serie cult era
sulla carta un’operazione complessa. Il primo Alien, a differenza dei suoi
seguiti, aveva in se la carica creativa per poter sostenere un’evoluzione del
prodotto, non solo in termini di action copia e incolla. Ma lo sviluppo
circolare, rispetto a quello lineare, presenta certamente molte più insidie e
spesso tende a virare verso l’assurdo, se realizzato con poca cognizione di
causa. Su queste basi, Lindelof e Spaihts, in collaborazione con Ridley Scott,
hanno cercato di dare credibilità ad una storia che potesse fungere da
giustificazione per alcuni elementi insoluti del primo film della quadrilogia,
diretto nel 1979 dallo stesso Scott.
Quest’operazione è andata però a scavare
troppo a fondo nella costruzione di una storia plausibile, generando un
prodotto a tratti magniloquente e presuntuoso, che non si limita allo
scioglimento di alcuni nodi centrali nella mitologia di Alien, ma rincara la
dose, andando a coinvolgere i temi cardini della ricerca infinita umana: fede,
scienza, evoluzione. E il risultato è un film che deraglia troppo spesso dalle
aspettative dei fan più accaniti per approfondire un tema specifico, magari
eccessivamente lontano dallo spirito e dalle esigenze che un “prequel” di Alien
necessitava. Ma è la parola “prequel” a riportarci alla considerazione di fondo
sugli intenti di quest’opera: l’obiettivo di Scott era andare a rinfoltire i
presupposti di uno sviluppo nel mentre dello sciorinamento di altri dubbi
decennali. E in questo senso la pellicola ha perfettamente centrato il
bersaglio, garantendo nuova linfa alle produzioni future che avranno il
coraggio di trattare il mostro sacro dello xenomorfo. La presunzione di fondo
però resta, e non basta una direzione ben delineata nel finale dell’opera a
giustificare una serie di forzature non indifferente. Proprio in queste
forzature, al di là della mancanza degli alien, si celano le critiche più
pesanti rivolte dai fan storici della saga all’opera di Scott. Spesso i
presupposti che guidano le azioni dei personaggi sono campati in aria e le loro
interazioni non riescono a restituire la grandezza che i campi lunghi e
lunghissimi dell’abile mano di Scott vorrebbero infondere nell’opera. Alcuni buchi
di trama minano l’efficacia della narrazione, pur senza alterarne il perfetto
ritmo. In particolar modo il personaggio di David, androide interpretato
magistralmente da Michael Fassbender, riassume alla perfezione questi due
aspetti della pellicola. Da una parte lascia godere lo spettatore per il doppio
gioco che intrattiene fin dall’inizio con i protagonisti ignari, dall’altra è l’espediente
narrativo che porta avanti la trama in una maniera poco credibile, come volesse
agire da costante deus ex machina. In particolare, il momento centrale in cui somministra
il liquido nero al dottor Holloway, che sarà poi l’inizio di una serie di
sfortunati eventi (totalmente casuali e imprevisti) che porterà alla nascita
del primo alien, non ha una base logica così solida da giustificare ciò che ne
consegue.
La casualità di alcune situazioni è uno dei punti deboli
più evidenti della pellicola, che tenta di arrampicarsi sugli specchi di fronte
ad una ricostruzione che non regge: gli originali, o gli “Ingegneri”, sono una
razza superiore in grado si spostarsi a piacimento per l’universo ben prima
della comparsa dell’uomo sulla Terra. Questa civiltà, in uno slancio di
onnipotenza, crea artificialmente un siero nero in grado di mutare
istantaneamente la vita biologica; tale siero ha un effetto mortifico sugli
stessi creatori. Un Ingegnere viene scelto per sacrificarsi e generare la vita
sulla Terra mediante l’assunzione del siero. Nasce l’uomo, dotato dello stesso
DNA degli Ingegneri, e fin dalle sue prime aggregazioni primitive si spende per
lasciare una testimonianza della presenza e dell’opera di civilizzazione degli Ingegneri,
testimonianza che poi sarà la chiave per l’approvazione della missione
Prometheus. Gli originali intanto perfezionano lo sviluppo dell’arma biologica,
ma nel farlo la situazione gli sfugge di mano e alcune colonie, adibite
appositamente alla ricerca sul siero, vengono sterminate dalle creature mutate
attraverso lo stesso materiale. Una volta decifrate le scritture poi gli uomini
individuano il pianeta indicato e lo raggiungono, con lo scopo di rispondere ad
alcuni quesiti esistenziali. Un androide, costruito per regolare la situazione
per conto di un magnate, sperimenta il siero ritrovato in una cripta su un
uomo, il quale ha un rapporto sessuale con una donna sterile prima di
manifestare i sintomi del disgregamento cellulare che lo porterà alla morte. Cresce
nella donna sterile il feto di una piovra, che lei prontamente rimuove a poche
ore dal “concepimento”. Il feto alieno abortito però continua a crescere e
attacca un Ingegnere verso la fine del film, comportandosi proprio come un facehugger
gigante. Questa catena di eventi porta alla fuoriuscita dall’addome dell’Ingegnere
di uno xenomorfo primordiale.
Una serie di forzature che lascia aperte
due questioni: lo scopo della creazione della vita sulla Terra e l’immagine
dell’alien nella cripta. Perché gli Ingegneri hanno creato la vita sulla terra?
Perché il siero ha effetti così differenti a seconda dell’essere con cui entra
in contatto e perché tali differenze riescono casualmente a portare la
pellicola al punto focale della questione? Perché sono tornati sulla Terra a
civilizzare l’uomo delle caverne? Perché, dall’altezza delle loro possibilità
tecnologiche, hanno lasciato che fosse l’uomo a trovare il pianeta su cui si
svolgono gli eventi e anziché prelevare semplicemente gli uomini
necessari ai loro esperimenti? Questa serie di domande potrebbe minare, a mio
parere, l’intaccabilità delle basi di “Prometheus”. Una volta entrati nella
cripta degli Ingegneri inoltre, gli umani attraversano diversi tunnel,
contraddistinti da vari simboli legati alla civiltà degli Ingegneri, tra i
quali spicca una statua raffigurante uno xenomorfo. L’alien prodotto alla fine
del film non è quindi il primo, ma probabilmente lo scopo ultimo della
sperimentazione degli originali. Alla luce di ciò, la trama di “Prometheus”
perde ulteriore fascino se letta nella continuity della saga.
Al di là dei punti a sfavore della pellicola di Scott, “Prometheus”
resta però un grandissimo film di fantascienza, con i suoi pregi e i suoi difetti,
sì, ma che è in grado di trasmettere la grandezza del suo autore attraverso una
regia sempre ordinata, una fotografia mozzafiato e una gestione dei tempi
perfetta. Molti buchi di trama scivolano via alla prima visione ed emergono
solo ad una successiva, perché nell’atto si è troppo impegnati ad ammirare la
maestosità di un progetto unico, non esente da colpe minori, ma che ha come grande
punto a sfavore l’obbligo di accontentare una schiera di fan insaziabili. I piccoli riferimenti non bastano a placare le ire di chi pretendeva un prequel dotato dello stesso spirito, ma è innegabile
che questa pellicola sia un ottimo film d’intrattenimento.
Questa era solamente una visione parziale di un’opera
complessa, che avrebbe bisogno di molte più parole per trovare giustizia. Ho cercato
di limitare la mia analisi in funzione dell’imminente uscita di “Alien: Covenat”
la cui recensione, prevista per venerdì, chiuderà ahimè la rubrica “Aspettando
Covenant”, che ci accompagnava ormai da diverse settimane. Se avete apprezzato
l’analisi di “Prometheus” vi invito a recuperare anche quelle dei precedenti
capitoli della saga.
Covenant saprà riportare in auge un brand solido che potrebbe
aver già raggiunto il suo apice con la quadrilogia originale? Riuscirà a
soddisfare i palati più fini? Scopriamolo insieme venerdì.
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