Correva l’anno 1997, apice del cosiddetto “Rinascimento
Disney”. Era l’epoca in cui lo studio d’animazione sfornava un capolavoro
all’anno, ma alcuni erano più capolavori di altri. E ancora oggi si discute e
ci si vanta del cartone animato Disney uscito nel proprio anno di nascita nelle
discussione da bar tra amici. C’è chi può tirare in ballo “La Bella e la
Bestia”, chi “La Sirenetta”, chi “Aladdin”. Io capitai male e mi dovetti
accontentare di “Pocahontas”, di cui tutti parlano bene, ma che nessuno in
realtà riguarderebbe più di due o tre volte. Uno di quei capolavori meno
capolavori di cui parlavamo prima. Ma torniamo al 1997, anno in cui avevo un
anno e i miei genitori cominciavano ad acquistarmi delle ingombranti VHS per
tenermi impegnato nelle ore pomeridiane. Di lì a pochi mesi avrei imparato
precocemente ad inserire le videocassette nel videoregistratore, a farle
partire e a non mandarle indietro prima di riporle nella custodia (Be kind,
rewind!). Di lì a pochi mesi avrei bruciato pellicole, rotto custodie a furia
di aprirle, collezionato (quasi) tutti i personaggi di Space Jam, ma quella è
un’altra storia.
Una delle prime VHS che i miei genitori mi acquistarono
fu il classico dei classici, successo planetario del 1994, “Il Re Leone”. La
prima volta che lo vidi ero nella mia cameretta, la classica camera anni ’90,
con il tappeto per le macchinine al centro, la cesta dei giocattoli e Topo
Gigio sul letto. Ero nella mia camera, presumibilmente nel seggiolone - ora non
ricordo con precisione, ma molto probabilmente ancora stentavo a camminare -
quando mia madre diede inizio all’epopea di Simba nella savana prima di
dileguarsi alla ricerca di faccende domestiche. Ricordo un incipit epico,
seguito da momenti molto leggeri e spensierati in cui il piccolo protagonista
faceva esperienza della sua nuova casa. Poi il dramma, il trauma: Simba che,
ingannato da Scar, si trova in pericolo di vita, ma viene salvato dal fiero
padre, leone coraggioso e valoroso. Quando però la situazione sembra risolversi
per il meglio, ecco che rispunta il perfido Scar, e il futuro della famiglia
reggente ripiomba nelle tenebre. Un salto nel vuoto, una carica di gnu e la
fine precoce di un sovrano encomiabile e di una padre amorevole. Poi Simba che,
passata la mandria, scende dalla rupe per soccorrere il padre. Ricordo un forte
senso di smarrimento per quello che stava succedendo sullo schermo, mi
dispiacque molto quando vidi il corpo esanime di Mufasa, ma è con la reazione
di Simba che pesanti lacrimoni cominciarono a segnarmi il visino e a finire
nella bocca salata. Piansi a dirotto pensando a Simba e alla sua perdita,
all’improvvisa scomparsa della colonna sulla quale di fondava la sua infanzia.
Mi sentì lì, in quella gola, al fianco del cucciolo, incapace di ridargli la
speranza. In quella gola scura e polverosa, nella quale erano morti anche i
colori della savana selvaggia.
Mia madre entrò in quel momento e mi vide in lacrime alla
famosa scena della morte di Mufasa e pensò che, nonostante la tenera età,
avessi già coscienza della morte. Il periodo in cui cominciava a credere di
avere un figliolo genio, ma no genio tipo Spinoza che fa le battute che fanno
ridere, tu le leggi, ridi, e quando la risata diventa espressione normale
aggiungi “Genio”. No, proprio genio tipo Einstein o Montalcini, o anche quello
di Aladdin, per rimanere in tema Disney. Ah mà, che abbagli che prendi!
Potreste però obiettare che io non possa avere ricordi di
quando ancora dovevo spegnere a fatica due candeline. Ma si tratta di un
ricordo prolungato, una serie di sensazioni ripetutesi nel tempo e arrivate
fino a me oggi, mutate nella forma ma non nella sostanza che le contrassegnò
all’epoca della prima visione. Ancora oggi, quando riguardo “Il Re Leone”,
provo una fitta al cuore nel momento della dipartita violenta del baluardo
dell’ordine e della speranza di Simba. Perché la morte è una parte di vita e,
come tale, ne facciamo esperienza, la introiettiamo al pari di altri elementi e
la portiamo con noi. Ognuno si trova un giorno a dover affrontare la morte,
nelle sue diverse forme e rappresentazioni. Alla mia generazione, il trauma di
Mufasa ha insegnato la mancanza di qualcosa quando essa c’è e un attimo dopo
sparisce, nella polvere della savana grigia.
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