Richard Linklater non sbaglia più un colpo, e, dopo il
dibattuto ma valido esperimento cinematografico chiamato Boyhood, rimette mano
ai suoi esordi per dare vita al seguito spirituale del film del ’93 “Dazed and
Confused”, che aveva segnato il suo primo successo, seppur all’epoca fosse
ancora un successo di nicchia. In “Dazed and Confused”, il
regista-sceneggiatore raccontava nel dettaglio l’ultimo giorno di scuola di un
gruppo di liceali americani nel 1976. Per il suo seguito spirituale, Linklater
ha adottato una linea simile, concentrandosi sui giorni che precedono l’inizio
dell’anno accademico al College e seguendo nello specifico le scorribande
scalmanate del gruppo della squadra di baseball. La storia, questa volta ambientata
nell’estate del 1980, vede in Jake, giovane matricola, socievole e aperto alla
vita, il fulcro della vicenda, il collante che regge insieme una serie di
episodi esilaranti e che apre infine le porte ad un’interpretazione più matura
dell’opera. Perché, anche in questo caso, Linklater ha dimostrato le sue
capacità di scrittura, al di là di quelle registiche - comunque invidiabili -, riuscendo
a proporre delle riflessioni costruttive e interessanti attraverso una facciata
divertente che ride di se stessa e che lascia un sorriso stampato sul viso
dello spettatore. Dietro una serie di personaggi sui generis si nascondono
considerazioni profonde sull’essere umani in comunità, sui contrasti, sulle
speranze, le delusioni e i cambiamenti che nascono dall’evoluzione e dallo
sviluppo di un soggetto in definizione progressiva. A questo proposito, la
scelta dell’età e del momento di vita dei protagonisti non è casuale, andando
così a scavare all’interno di una criticità notevole, nella quale spesso si
perde l’essenza propria dei soggetti, ossia quel periodo che coincide con il passaggio nel mondo degli adulti.
Il messaggio dell’autore non è però così palese e nulla
vieta di godersi il film per l’ottima commedia corale e giovanile che comunque
resta, ma ciò coinciderebbe con una riduzione della portata dell’opera. Per
andare a fondo, è necessario dunque concentrarsi su personaggi e situazioni che
potrebbero sembrare secondari, di poco conto. Nello specifico mi riferisco
all’amico del liceo, ora punk credente e praticante, e a Willoughby, compagno
di squadra del protagonista dedito al rilassamento e alla telepatia. Ma non
agli squali, a quelli non pensa affatto.
Nel primo caso, i protagonisti, membri della squadra di
baseball, si trovano ogni giorno ad adattarsi ad un nuovo contesto, ad
incontrare persone diverse, ad inventare segni zodiacali per far colpo sulla
prossima ragazza. Il momento della riflessione è servito dall’invito del
ribelle amico del protagonista ad un concerto punk. Jake e Finn si ritrovano ad
impersonare il terzo personaggio diverso nel giro di tre sere. Chi sono davvero
non è rilevante. Ciò che emerge è la libertà di essere chiunque dietro quei
baffi modaioli, dietro il fare da Casanova. Ciò che emerge è la possibilità
ancora plausibile di plasmare la loro materia per indirizzare la vita verso
l’espressione piena dell’essere, verso l’originalità, verso quel guizzo che
accompagna gli adolescenti sognatori e che si spegne tra il castello delle
istituzioni, la produttività e la morte interiore della ripetizione. I nostri
atleti preferiti dimostrano di avere ancora una materia attiva dentro che
continua a produrre vita, al di là delle convenzioni, all’insegna del
divertimento e della spensieratezza.
Nel secondo caso, invece, la questione si fa più
profonda, con uno sguardo al futuro ed uno ad un passato perso, rimpianto e
infrantosi contro l’originalità dell’essere al di fuori della società. Fin da
subito Willoughby pare essere quello del gruppo di amici che meno si sposa con
lo stile di vita forsennato e frenetico dei suoi nuovi compagni di squadra. Il
biondo rilassato preferisce stare in disparte, ascoltare musica psichedelica e
non disdegna l’uso di droghe leggere. Incisivo è il suo discorso al
protagonista sull’uso proprio che bisogna fare dei propri mezzi, sulla
necessità di perpetrare la propria stranezza senza preoccuparsi del giudizio
altrui, senza chiudersi per proteggersi. Allo stesso modo però risulta
fondamentale la conclusione della linea narrativa del personaggio, alla luce
della quale muta anche la riflessione fatta in relazione al primo episodio. Lasciare
tutto con il lato oscuro della luna dei Pink Floyd e il sorriso non è da tutti,
ma happiness only real when shared e allontanarsi così tanto dall’aggregazione
degli uomini può ritorcersi contro lo stesso soggetto. È proprio questo il
punto cruciale: la doppia tendenza. Se da una parte è il soggetto a cercare una
sua espressione nel mondo, dall’altra la società necessità, per sua struttura,
che il soggetto prenda una posizione, e l’incastro imperfetto di questi due
movimenti complessi può allontanare l’uomo da se stesso, dall’essere umano, per
rincorrere nel tempo l’ombra di quello che avremmo voluto essere, di un giovane
collegiale che non siamo più, tra il biliardo e le stelle.
Ciò che resta, dopo la visione di questo film, è però
certamente la consapevolezza della libertà, del tempo che è sempre dalla nostra
parte, dell’infinità delle possibilità. Perché è il mondo ad essere infinito,
infinito e aperto. E le barriere che vediamo, i muri, le costrizioni, le
differenze sono solo nella nostra mente. È l’occhio a confinare questo mondo in
uno schema chiuso e repressivo. Contro la nostra natura, contro la voglia di continuare a conoscersi nel fiume d’agosto, mentre Mark Knopfler
suona. Mano nella mano.
Frontiers are where you see them.