Clicca QUI per il racconto della prima giornata del festival.
Non le ho più trovate, le chiavi. Ci sono rimasto male,
mi piaceva quel portachiavi ramato a forma di granchio. Eppure ero sicuro
fossero le mie quelle mostrate dai Gazebo Penguins lì sul palco. Ma cominciamo
dal principio:
“Lì c’è il bassista, ho capito dove siamo. Torno subito.”
Mi allontano verso il bar, sgusciando tra la folla
ammassata in attesa che Contessa salga sul palco. Che poi a me I Cani nemmeno
piacciono tanto. Arrivo alla cassa e trovo parecchia gente che ha avuto la mia
stessa brillante idea, quindi mi metto in fila pazientemente e passo dieci
minuti buoni a pensare che avrei fatto meglio ad andare all’altro bar; intanto
sul palco hanno problemi tecnici e la voce del nostro Niccolò va e viene. Dopo
essermi reso conto di non avere nessuna possibilità di ricongiungermi alla nave
madre di questo blog e un po’ annoiato da un pubblico statico manco fosse un
concerto dei Godspeed You! Black Emperor, mi allontano dal palco Pertini,
partigiano, e mi dirigo verso il palco Rizla, marca di cartine.
Al Rizla trovo i Gazebo Penguins impegnati ad offrire
un’esibizione grezza ma energica ma soprattutto trovo, finamente, un pogo. Apro
un breve ma sincero inciso sul pogo: il pogo è l’unica circostanza in cui può
esistere sincera solidarietà tra gli uomini, dove i princìpi evangelici trovano
espressione, scevri da ogni ipocrisia, dove sei pronto ad abbracciare chi ti ha
appena fratturato l’osso parietale con una gomitata, dove non meno di quindici
mani si abbasseranno ad afferrarti se dovessi cadere. Il pogo è utopia.
È nel pogo che ho perso le chiavi, quelle col portachiavi
a forma di granchio. Il resto della storia lo conoscete, più o meno.
Non pago dell’esperienza sono tornato il giorno seguente,
questa volta in macchina in modo da non dover usufruire del servizio navetta, poco efficiente. Mi godo dalla prima all’ultima nota il concerto dei Joe Victor, band country/folk romana in cui milita il tastierista più felice che io
abbia mai visto esibirsi e che ha insieme agli altri membri del gruppo, la
capacità straordinaria di trasmettere tutta la sua gioia anche al pubblico. Si
avverte subito che la giornata promette qualcosa di completamente diverso dal
giorno precedente: la gente si muove, tanto, e sono solo le 19.
Dopo di loro salgono sul palco i C+C=Maxigross che ho
avuto occasione di vedere dal vivo già una volta. Nemmeno questa volta mi
convincono. Offrono un concerto asciutto, asettico, soffrono il contrasto con
l’esibizione precedente alla loro e per quanto la musica sia ben suonata non
coinvolgono più di tanto. Intravedo un tipo con un’enorme massa di dreadlocks
raccolti in un cappello: è uno dei motivi per cui sono qui, ma di lui parlerò
fra poco. Intanto vado ad ascoltarmi Matilde Davoli e Wrongonyou al Rizla Stage
approfittandone per rilassarmi un poco sul prato, poi torno al Pertini per assistere
alla seconda delle ragioni per cui sono andato al Mi Ami anche questo Sabato.
Riesco a trovare giusto in tempo un ottimo posticino ad
una buona distanza dal palco, vicino al chitarrista dei C+C=Maxigross e alla
sua maglietta psichedelica, e attendo mentre la gente si affolla. I musicisti
salgono sul palco, le luci si abbassano, la musica comincia e all’improvviso il
pubblico si trasmuta in un mare di teste ondeggianti, come in un qualche
rituale atavico: il pezzo è Tanca e a suonare è IOSONOUNCANE. Suona buona parte
di DIE, qualche pezzo da La macarena su Roma e chiude con la già classica
Stormi, cantata da tutti, ma proprio tutti. Un’esibizione tra le migliori del
festival, senza alcun dubbio.
Il resto della serata lo trascorro girovagando per il
festival, tra un palco e l’altro senza mai soffermarmi troppo da nessuna parte.
Ascolto il pop esotico dei Selton e sono tentato dal pogo che si crea durante
lo show dei Ministri, ma desisto memore del giorno precedente. Arriva anche il
momento discotecaro con The Bloody Beetroots che fa un paio di passaggi in
consolle e il resto del tempo lo passa a saltare, fare cose, dire cose. Ad un
certo punto parte un remix di New Noise dei Refused e decido che posso farne a
meno. Niente di personale, Sir.
È ormai notte fonda ma manca ancora un atto per chiudere questa
seconda giornata e promette di essere una degna conclusione. Dubfiles è un
progetto nato dalla mente del produttore dei Mellow Mood Paolo Baldini, il tipo
coi dread di cui parlavo prima. Per farla breve c’è un grosso mixer, in ogni
canale c’è la traccia di un diverso strumento e lui fa magie abbassando e
alzando fader e girando rotelline. Su questa base reggae si innestano
improvvisazioni di vari artisti: Giulio e uno dei gemelli (non so distinguerli)
dei Mellow Mood e Forelock a ‘sto giro. Tutto ciò avviene non su un palco, ma
in mezzo al pubblico, a terra, in un clima danzereccio di dread oscillanti, visi
spensierati e menti forse non troppo lucide difficile da descrivere con
efficacia, bisogna viverlo. Perfino Carlo Pastore ondeggia con un drink in mano
e un sorriso ebete stampato in faccia.
Con questa immagine (quella dei Dubfiles, non la faccia
di Pastore) si è chiusa l’esperienza MI AMI di quest’anno, con un bel po’ di
buona musica, qualche storia da raccontare in più e un mazzo di chiavi in meno.
Marsha Bronson
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