Il quarto ed
ultimo atto della miniserie di Corrado Guzzanti è un momento di televisione
totale. La critica super partes si estende ad ogni angolo della nostra malata
società e il cerchio si chiude. Ogni personaggio sopra le righe ha vissuto un
percorso di sostanzializzazione e realizzazione che l’ha portato, in questo
finale aperto ma definitivo, a collocarsi con precisione nello scacchiere della
società contemporanea, senza stonare e senza strafare. Ma, ad aver subito la
trasformazione più definita è stato indubbiamente il personaggio di Mario
Bambea, alias Bizio Capoccetti. In quest’ultimo episodio, infatti, attraverso
le sequenze oniriche dell’incidente-suicidio, gli argini della divisione
mentale si rompono e lasciano il posto ad un individuo reale, frastagliato e
non coincidente con le situazioni in cui i suoi due poli l’hanno incastrato. Il
Bizio tormentato, che Guzzanti ha portato in scena nel finale, risente delle
influenze della sua parte tollerante e intellettuale. Dietro questo doppio
personaggio, protagonista anche di un divertente siparietto di metatelevisione legato a Dr. Jack e Mr. Aids,
si cela la metafora di un soggetto che siamo noi, combattuti, dibattuti,
costantemente tra due fuochi opposti, costantemente obbligati a dover prendere
una posizione, che sia intellettuale o filistea, che sia un estremo o l’altro,
ma pur sempre un estremo. Ci troviamo invischiati in una società che non
tollera la via mediana ed esalta ogni evento, oggetto, soggetto. Etichetta e
non lascia lo spaio di un cambiamento. Un po’ la storia di ognuno di noi con la
musica: il secondo album di un gruppo sarà sicuramente troppo uguale al
precedente o troppo diverso; perché non possediamo più una mente rilassata nei
tempi e nei movimenti in grado di mantenersi flessibile ai cambiamenti altrui,
ma il nostro ego, le nostre credenze e la necessità di trovare un posto a tutto
ciò che ci circonda ci porta all’assolutizzazione della realtà. Rigorosamente
in chiave produttivistica e capitalistica. Sempre badando al fine del percorso,
sempre pensando materialmente al guadagno. E crediamo che un premio orrendo di
una squallida competizione tra comici di bassa lega sia la svolta, in un mondo
che fonda sulla predominanza di uno il benessere degli altri, la leggerezza del
non essere protagonisti. Questa scissione ingombrante e incompatibile con la
società contemporanea non può fare altro che portare Mario Capoccetti al
(tentato) suicidio. Bizio Bambea è tutti coloro che non coincidono, che non si
riducono, che non si abbassano e che forse in fondo non c’entrano nulla con
questa piccola Italia. L’Italia degli chef in TV, dei salotti politici, di
twitter, del Ciaone, delle bombe, dei referendum, delle cose importanti, della
famiglia, del posto fisso, del razzismo, dei talenti ai talent, della violenza,
della paura, dei muri. Che era l’Italia del valzer e l’Italia del caffè.
E in tutto questo si continua a ridere senza freni: Guzzanti continua
a mantenere alta il livello di comicità, stavolta forse più riuscito nei
momenti in cui le circostanze dovevano assumere una parvenza di serietà
(Bambea) piuttosto che nelle sequenze incentrate sull’eccessività del comico di
bassa lega. Il ritorno all’ordine dell’intellettuale di sinistra coincide con i
momento in cui Guzzanti tira le fila del discorso. Irresistibile la scena in
cui Veltroni, ospite della Gruber insieme a Bambea, dimostra di non aver capito
nulla dell’intera faccenda e di continuare ad interpretare il mondo per
interpreti che rispondano alle esigenze della società, forte del fatto che si è
in quanto si appare in questo mondo di duellanti amichevoli. Un mondo a cui
però manca il dialogo necessario a sviluppare un reale dibattito. Cosa che
infatti viene a mancare anche nel momento in cui Guzzanti sceglie di non
scegliere la verità, e di diventare lo scrittore che il mondo vuole. Alla
ricerca di sé per gli altri.
Ma la facciata di questa profonda critica complessiva
rimane quella di una serie all’apparenza semplice, costruita per episodi che
fanno il verso ad eventi con cui ci troviamo a fare i conti giornalmente. Ed è
forse in questo aspetto che emerge la capacità innata di Guzzanti, palesemente
presente anche in “Dov’è Mario?”, di rendere potenzialmente esilarante e allo
stesso tempo tristemente satirica ogni scena di vita vissuta. Ogni frangente è
buono per irridere i nuovi modelli di famiglia, lo show business, il festival di
Nepi che cambia le persone, i manicomi, l’editto Bulgaro, Charlie Hebdo. Nulla
è lasciato al caso e, nel bene e nel male, il nonpiùgiovane Corrado ha
dimostrato ancora una volta la differenza che intercorre tra lui e quelli che
chiamano “comici” sulle reti nazionali. Un abisso che passa sia dalle abilità
tecniche che dall’interpretazione del ruolo del comico satirico.
Considerando in toto “Dov’è Mario?”, la miniserie in
quattro episodi di Sky si conferma come un prodotto differente, per persone che
vorrebbero essere abituate ad una comicità differente, ma che purtroppo non lo
sono. Si potrebbe discutere della trama, dello sviluppo, delle interpretazioni.
Ma sarebbero parole vane, perché il livello di giudizio di un’opera
concettualmente così superiore alla normale scrittura delle serie TV comedy
richiede un salto qualitativo. E allora un Guzzanti rimane un Guzzanti, anche
se non ha le unghie. Anche se il mio falegname con trenta mila lire lo faceva
meglio.
Corrado Guzzanti, sei un nummero uno!
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