Tra i vari prodotti originali Netflix di questo
inizio 2018 spicca Mute, thriller sci-fi ad alto budget diretto da Duncan
Jones. Il vero motivo d’interesse verso questo film, dal mio punto di vista,
non stava tanto nello sviluppo del paradigma Netflix in ambito cinematografico,
ma proprio nella figura del regista, primogenito di David Bowie, già autore di
due instant classic come Moon e Source code, prima di dedicarsi al fallimentare
progetto Warcraft. Il nome di Duncan Jones racchiudeva in se le enormi premesse
di Mute: in primo luogo certamente il ritorno del regista alla fantascienza più
pura dopo la parentesi fantasy; proprio in questo genere Jones aveva saputo
dare prova delle sue indiscusse capacità cinematografiche. Il film si
presentava inoltre come il seguito spirituale di Moon. In secondo luogo l’omaggio
al padre defunto, omaggio voluto proprio in occasione di questo film, ambientato
nella Berlino che aveva saputo ridare a David Bowie lo stimolo per rilanciare
ancora una volta la sua figura musicale con la celebre trilogia. Inevitabile infine
il confronto con Blade Runner, e di conseguenza con il suo seguito Blade Runner
2049: quando scegli una certa colorazione, quando la metropoli fa da sfondo al
dramma di un giustiziere solitario, quando la macchina da pesa scende in quel
modo nella prima scena cittadina, non puoi esimerti dal confronto con la
leggenda, e uscirne con le ossa frantumate è molto più facile di quanto sembri.
Nonostante le ottime premesse, Mute appare fin da subito
scadente sotto molti punti di vista, a partire dalla messa in scena
clamorosamente mancata: il futuro ricreato del regista è artificioso e non
rispecchia l’evoluzione del nostro presente, ma un 2052 alternativo,
parallelo, in cui il gusto estetico e pratico ha seguito una linea totalmente
differente. Dopo un incipit efficace in cui vediamo il protagonista perdere l’uso
della parola in seguito ad un incidente in barca, il film smarrisce la rotta e
naufraga presto verso una sequela di eventi macchinosi e senza ritmo. L’indagine
alla ricerca di Naadirah, la ragazza di capelli blu, è sconclusionata e la
costruzione del sistema di enigmi, ricompense e indizi risulta abbozzato,
talvolta campato per aria da un punto di vista logico. I pochi momenti
potenzialmente carichi di patos vengono rovinati da una scrittura scialba o dai
personaggi fuori luogo. I personaggi rappresentano infatti uno dei problemi
maggiori della pellicola: salvo rare sequenze, gli attori sono perennemente
fuori parte e - di conseguenza - i personaggi che interpretano sembrano non
essere realmente presenti sulla scena. In tutto ciò la regia, la fotografia e gli aspetti
tecnici della pellicola non intervengono a salvare il salvabile, ma lasciano
che la barca vada a fondo con tutto l’equipaggio.
In linea generale nulla va per il verso giusto e uno dei
prodotti di punta di Netflix per questo 2018 si è rivelato essere un clamoroso
buco nell’acqua che non rende giustizia alle capacità del regista e fallisce
anche nell’intrattenimento più basilare. Ma facciamo un passo oltre e lasciamo
per un attimo da parte la piattaforma streaming per concentrarci su Duncan Jones. Il regista
aveva stupito critica e pubblico con i primi due film dimostrando una mano
dotata, la giusta ambizione per emergere con un cinema spesso considerato di
nicchia e un sincero amore per il genere fantascientifico. caratteristiche che
gli hanno aperto diverse porte e l’hanno spinto al di là della sua comfort
zone, la situazione artistica e lavorativa in cui riusciva a infondere il suo
spirito nelle pellicole. Guardando agli ultimi due lavori possiamo dire che l’autore
appare non più in grado di dare senso e ritmo a immagini riciclate, sbiadite
nonostante i colori forti, momenti che tendono sempre più verso un trash non
ricercato ma occorso. Mute manca di troppa qualità per poter competere con la
nuova fantascienza di Denis Villeneuve, da Arrival a Blade Runner 2049. Tra Mute
e il seguito di Blade Runner passano idealmente appena 3 anni, ma il primo è
anni luce dietro rispetto alla storia dell’agente K e i due futuri descritti non sono
minimamente paragonabili.
Perché credere ancora in Duncan Jones? Il cinema come
arte, espressione di un’idea non s’improvvisa, ma arriva dal profondo ed emerge
con lo studio e la pratica. Jones ha dimostrato di avere un’attitudine
artistica - questo è innegabile. L’autore non ha ancora sviluppato la capacità
di individuare i progetti più adatti alle sue peculiarità. Mute non è solo un’opera
manchevole, ma un prodotto sbagliato nella costruzione e nelle intenzioni. Ripartire
dalla passione più sincera, ragionare sul concetto prima della realizzazione. E
io, dopo il secondo flop consecutivo, aspetto ancora il ritorno di un grande
regista.
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