mercoledì 9 novembre 2016

LA FINE DEI COLDPLAY

"Bones sinking like stones
All that we've fought for
Homes, places we've grown
All of us are done for

We live in a beautiful world
Yeah we do
Yeah we do
We live in a beautiful world”

Si apriva con questa sottile, bipolare “Don’t Panic” il primo album dei Coldplay. Era il 2000 e Parachutes portava alla ribalta quattro ragazzi inglesi dalla faccia pulita. Pulita come la pulizia che contraddistingueva ogni brano, dalla già citata apertura a “Shiver”, dai successi planetari “Yellow” e “Trouble” alla dolce “We Never Change”. Il primo album non era spinto e sostenuto solamente dall’effetto novità, come spesso accade, ma aveva in sé un’anima, una vita propria. Un complesso di situazioni di vita che Chris Martin e compagni avevano infuso nelle parole e nelle note di ogni brano. Questa essenza impressa nelle parti luminose e oscure del leggero mappamondo richiedeva all’ascoltatore di mettere in gioco delle emozioni personali per mescolarle autonomamente con quello che già c’era e ricavarne un’esperienza unica. Perché è questo ciò che distingue la musica fruibile nella distrazione mattutina da quella a cui affidare i propri giorni più bui e le giornate indimenticabili, che nella vita sono appena quattro o cinque, il resto fa volume.


I primi Coldplay erano questo, tra armonia e poesia, alla ricerca di un rapporto diretto con l’ascoltatore, allontanandosi dal commercio basso di emozioni tutte uguali. I testi di Parachutes riuscivano a tradurre in musica l’interiorità dello stesso Martin, un’interiorità segnata da esperienze complesse e contraddittorie. Parachutes era un flusso di vita e sofferenza, un toccante inno alla meraviglia della vita passando tra i rovi in cui il tempo ci incastra. Viviamo in un mondo meraviglioso, nonostante le brutture, nonostante le difficoltà, la devastazione delle guerre, le morti innocenti, la perdita di senso che viviamo. Nonostante tutto.
Se tutti questi meriti possono essere attribuiti a Parachutes, lo stesso non può essere fatto per i lavori successivi, o meglio, con il passare del tempo i Coldplay si sono gradualmente allontanati sempre più dal modello vissuto attraverso il primo album per voltarsi alla produzione di massa. “A Rush full of Blood” riusciva a migliorarsi dal punto di vista musicale, ma non a toccare le stesse corde sensibili del primo. “X & Y” invece sembrava riprendere appieno lo stile delle origini, seppur mancando alcuni colpi. La vera svolta di è avuta con “Viva la Vida”, che cercava di spaziare maggiormente dal punto di vista musicale con l’introduzione di nuove sonorità ed una costruzione del brano rivista, ma abbandonava definitivamente il rapporto diretto con lo spettatore. Nonostante la decisa svolta verso l’anonimato emozionale, i Coldplay riuscirono, a mio parere, a produrre in questo periodo una perla all’altezza dei primi fasti: “Death and allo of his Friends”. Una ballata carica di coraggio, vita e amore per il mondo che sfocia in un travolgente grido finale:

“I don’t want to battle from beginnig to end
I don’t want a cycle of recycled revenge
I don’t want to follow death and allo f his friends”

Poesia che, con un semplice pronome personifica e allarga il mostro della morte a tutto ciò che va contro il genere umano e la sua natura iniziatica. Cedere alla banalità della ragionata morte artistica è esso stesso un amico della morte. Processo che si concretizzò definitivamente con “Mylo Xyloto”, album oggettivamente impersonale, condito da parole non indimenticabili e da un duetto con Rihanna (“Princess of China”) che risulta così lontano dalle sussurrate, impacciate e imbarazzate origini da sembrare addirittura irriconoscibile per gli amanti dell’intimismo di Martin.


Con "Ghost Stories", almeno a mio parere, la band è riuscita a ritrovare una via d’espressione originale e unica virando verso sonorità elettroniche (“Midnight”) e personalizzando l’opera sulla figura del cantante. Alla base di questo ulteriore cambio di rotta infatti la ricerca di Martin di un canale di sfogo di alcuni sentimenti maturati dopo la rottura con Gwyneth Paltrow. Un artista che apre le proprie vene per portarci nel suo cuore calpestato e stritolato.
Arriviamo così all’ultimo “A Head Full of Dreams”, scempio ormai noto a tutti. Un prodotto che dietro i beat accattivanti e i rumori fastidiosi nasconde il nulla. Nessuna storia, nessun dialogo sopito da risvegliare e amare, nessuna passione per l’eterna frizione umana tra gioia e dolore, solo la superficiale voglia di agitare le folle al ritmo di sonorità ripetute tutte uguali. Il passo esatto nel precipizio attorno al quale il gruppo camminava pericolosamente da anni. È in questa flessione ideale che i Coldplay hanno fallito, nell’aver mancato di ripetersi nella comunicazione sincera di emozioni personali. Potremmo dedurre che questa sia la fine dei Coldplay, soprattutto alla luce delle dichiarazioni che spalancavano la porta all’ultima fatica. Ma, se c’è una cosa che ho imparato da questi ragazzi che ho amato alla follia, è proprio il messaggio del brano che porterò sempre con me. “Everything’s not Lost”. Nulla è perduto, quando non vedete un futuro, quando attorno a voi non trovate altro che densa oscurità, quando la notte sfiorate solo il muro freddo nel silenzio. Nulla è perduto, ma nulla dura per sempre, e forse anche i Coldplay hanno fatto il loro corso glorioso. Questo non cancella un passato meraviglioso e indimenticabile, una storia d’amore per la vita che abbiamo vissuto anche noi e alla quale ci siamo appassionati. Non cancella una parte delle nostre vite, perché ciò che i Coldplay sono stati non andrà mai perduto. Everything’s not Lost.

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