Chiariamo subito: la prima stagione di Stranger Things
non era il capolavoro che il pubblico ha osannato, ma una grande serie capace
di sfruttare appieno i suoi punti di forza, seppur non esente da difetti. Il
più grande punto di forza della prima stagione era indubbiamente l’effetto
nostalgia mischiato ad una buona dose di novità nel panorama delle serie tv. Il
merito dell’esordio dei Duffer Brothers è stato invece quello di scrivere una
storia caratterizzata da una spiccata coerenza narrativa dall’inizio alla fine.
Il fil rouge sono infatti la scomparsa di Will e le indagini che scoprono un
mondo fatto di materia oscura nel tentativo di ritrovare il ragazzino. Una
trama orizzontale e lineare che ha sempre guidato i personaggi nelle loro
azioni organizzate con piccole ricompense lungo il cammino per poi giungere
alla ricompensa definitiva del ritrovamento di Will. Nulla è lasciato al caso
nella prima stagione e l’effetto imbuto delle varie storyline appare quanto più
naturale possibile per via del fatto che tutto in origine era pensato per
terminare in un dato punto.
Con quali aspettative ci siamo approcciati alla seconda
stagione? Fraintendendo le reali possibilità della prima stagione, abbiamo
inconsapevolmente assecondato l’effetto collaterale della nostalgia, ossia
quello di fagocitare il resto della costruzione narrativa, richiedendo a gran
voce altra nostalgia. Un circolo vizioso destinato ad estinguere prima lo
sviluppo di nuove idee, infine la nostalgia stessa. I Duffer, al contrario
delle aspettative errate del pubblico, hanno saputo sostenere con compostezza
il peso del ritorno ad Hawkins, Indiana, ma appare evidente fin da subito che
la seconda stagione non era nelle corde degli sceneggiatori all’epoca
dell’ideazione della prima. I creatori della serie non sapevano come Stranger
Things sarebbe stata accolta e avevano strutturato la prima stagione come un
unicum narrativo compatto e completo. Abbiamo già ampiamente discusso della posticcia presenza delle ultime scene dopo il salvataggio di Will nella prima stagione, sequenze che aprivano le possibilità degli sceneggiatori, piuttosto
che indirizzarle sulla falsa riga della linearità della prima stagione.
La seconda stagione rivoluziona la struttura narrativa,
passando dall’orizzontalità ad uno schema ad albero i cui intricati rami
dispersivi tendono infine a tornare verso una conclusione unitaria. In questo
modo, gli sviluppi narrativi che avevamo lasciato in una situazione di quiete
si allontanano sempre più durante lo svolgimento della trama, rischiando spesso
di perdere il centro focale dell’opera. Si perde così l’unicum che aveva legato
tutte le storyline della prima stagione - la scomparsa di Will Byers - per
andare in contro ad una costruzione più tipicamente seriale. Qual è l’unicum
della seconda stagione? Gli strascichi della permanenza di Will
nell’Upsidedown, la ricerca personale di El o ancora lo svelamento della verità
sulla morte di Barb? È probabilmente su
questo dubbio che si gioca la più grande differenza tra le due stagione di Stranger
Things.
Se da una parte abbiamo dovuto rinunciare alla grande
coerenza narrative della prima stagione, dall’altra la struttura tipicamente
seriale assunta da Stranger Things ha spalancato le porte ad una
riqualificazione dei personaggi, che sono diventati il fulcro attorno al quale
la serie ha cominciato a gettare la basi di una continuità più a lungo termine.
E proprio questa programmazione porta alcuni personaggi a risaltare più di
altri, magari invertendo il trend della prima stagione, grazie alla certezza di
uno sviluppo nel tempo. Le new entry sono ad esempio perfette, così come Dustin
e Lucas. Calano invece, soprattutto nella prima metà di questa seconda
stagione, Mike e Eleven.
Bob Newby, superhero |
La posizione di Eleven rispetto agi eventi narrati è un
argomento cardine per la valutazione della serie: l’assenza forzata del
personaggio interpretato da Millie Bobby Brown è negli interessi della serie,
ma in questo modo i Duffer mostrano il fianco ad una trama fiacca e
balbettante, che, senza l’attesa del deus ex-machina finale, si sarebbe ridotta
ad una miniserie di quattro episodi. Il ritardo di El allunga palesemente il
brodo in un calderone di eventi che tendono troppo spesso a complicare pochi momenti
significativi, ma al contempo è fondamentale per l’evoluzione della serie, sia
in termini televisivi che dal punto di vista della scrittura per le prossime
stagioni.
Il bilancio finale parla di una maturazione che evita disfatte
clamorose rispetto alla prima stagione e all’attenzione che essa aveva generato;
la seconda stagione sceglie volutamente di non riproporre un banale
more-of-the-same della prima, ma differenzia abilmente struttura e sviluppo,
pur rimanendo ancorata ai capisaldi che avevano fatto grande la prima caccia al
demogorgone. Stranger Things 2 è quello che noi fan di “vecchia” data
desideravamo e non possiamo che gioire per questo ritorno, perché l’anima della
serie è rimasta la stessa. Restano dei difetti, si perde forse la magia della
prima stagione, ma tornare ad Hawkins con quei cinque ragazzi è sempre un’emozione
fantastica.
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