lunedì 30 ottobre 2017

IL VERO PROBLEMA DI THOR: RAGNAROK

Il terzo capitolo della saga dedicata al dio - o zio - del tuono si distingue per un approccio diverso, più scanzonato e canzonatorio, che fa saltare per larghi tratti della pellicola i rigidi canoni Marvel. La parola d’ordine è divertimento; su di essa Taika Waititi ha impostato la realizzazione del film ed è evidente che gli attori abbiamo provato un reale piacere durante le riprese, piacere che poi sono riusciti ad imprimere sulla pellicola. Si ride molto e di gusto; ogni scena, ogni scelta è indirizzata a divertire il pubblico. Ma tutte queste risate hanno un prezzo, vengono infatti sacrificate sull’altare del divertimento a tutti i costi la profondità e la coerenza - sia narrativa che nella caratterizzazione dei personaggi - rispetto alla linea comune prescelta dai Marvel Studios.


Thor: Ragnarok manca della reale capacità di andare in profondità nei momenti cruciali della pellicola e storie come quella di Valchiria o momenti come il ritrovamento di Odino non arrivano allo spettatore nel modo in cui avrebbero potuto. L’emotività e lo sviluppo psicologico si fermano prima di bucare lo schermo, oscurati da un velo registico e stilistico che non prescinde mai dall’ilarità e, quando lo fa, stona terribilmente nel farlo.


Altra pecca del film di Waititi sta nel rapporto tra la nuova pellicola e gli altri film che compongono il MCU. Il tono utilizzato per l’ultimo capitolo di Thor non rientra pienamente nel range di possibilità aperte dal modello Marvel a partire dal primo Iron Man, ma tenta in ogni caso di avvicinarsi all’esempio proposto dai Guardiani della galassia. Il problema sta nei materiali utilizzati nella costruzione di questo nuovo paradigma, che sulla carta richiederebbero un trattamento diverso alla luce delle loro precedenti apparizioni. Un conto è introdurre nell’ambito di una continuità slegata un personaggio come Deadpool, creato appositamente per rovesciare le forme di riferimento con un’ironia pungente, altra cosa è snaturare personaggi già conosciuti e apprezzati dal grande pubblico in funzione di un rinnovamento inaspettato. Un cambiamento sarebbe oro in questo momento per la ripetitiva casa di produzione, ma non è corretto verso il pubblico e verso l’opera letteraria di riferimento cambiare in questo modo i connotati di Thor e Bruce Banner.


I Guardiani della galassia hanno saputo innovare il canone grazie all’effetto novità portato da personaggi pressoché sconosciuti, ma James Gunn non ha mai trascurato uno sviluppo in profondità delle personalità che fanno parte o hanno fatto parte della squadra dei Guardiani. Ogni azione è in realtà giustificata da un sostrato semplice ma tangibile che sorregge la possibilità delle azioni dei protagonisti all’interno del MCU. E in questo calderone è plausibile credere ad una scena anticlimatica come il ballo di Starlord alla fine del primo film o al finale drammatico del secondo capitolo. Perché il progetto ha basi più solide di una scelta stilistica una tantum, arriva da lontano e dalle sapienti mani di James Gunn.


Il vero problema di Thor: Ragnarok è il vuoto che si cela dietro una maschera di divertimento, azione scanzonata e colori saturati. Il divertimento che si fa manifesto della svolta nella trilogia dedicata al dio del tuono è in realtà fine a se stesso e spesso ci si trova distanti dal senso primario dell’opera (il cosiddetto “Ragnarok”) per il solo scopo di strappare un sorriso svilendo la dignità di alcuni personaggi storici. Thor: Ragnarok è l’art pour l’art.

Senza l’art.

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