Kathryn Bigelow mette le sue indiscutibili doti al
servizio di uno specchio planetario che taglia trasversalmente le pieghe del
tempo, restituendo un’immagine di ieri che è il ritratto di oggi. Ma le
fondamenta di questa nostra società impediranno alla storia di irrompere
fragorosamente domani?
Nel 1967, in un’epoca di grandi cambiamenti sociali, la
città di Detroit, nel Michigan, fu il teatro di una rivolta urbana che presto
si trasformò in una vera e propria guerriglia. A scatenare gli eventi
drammatici fu l’ennesimo abuso da parte della polizia locale che irruppe in una
casa privata del quartiere nero per interrompere una festa e condurre tutti i
presenti in caserma. Gli scontri durarono quattro giorni, dal 23 al 27 luglio. 43 morti, 1.189 feriti, più
di 7.200 arresti e oltre 2.000 edifici distrutti. La storia del film si
concentra su alcune di queste morti avvenute nel teatro degli orrori
dell’Algiers Motel.
Detroit
è un dramma dal taglio documentaristico in tre atti, scritto con mestiere e
realizzato a regola d’arte. La prima parte della pellicola si preoccupa
maggiormente di contestualizzare la violenza, e all’interno della ricostruzione
storica vengono brevemente anticipati i personaggi principali che saliranno poi in cattedra nei restanti due atti. La contestualizzazione del momento storico
rende tangibile una tensione vitale esplosa a seguito della condizione alla
quale era costretta la popolazione nera in quegli anni. Chi è senza peccato
scagli la prima pietra. Eppure è palese che non si tratti del blitz nella casa privata
e neppure delle vetrine infrante, ma le scintille fanno luce su un fuoco che
ardeva da tempo, alimentato dal pensiero come dalle azioni di una popolazione
divisa in se stessa. Un patteggiamento è impossibile; la regista non cade nella
banale spettacolarizzazione del dolore che distingue i buoni dai cattivi, il
nero dal bianco. Ogni momento si trascina dietro un peso ideologico
insostenibile che diventa la sconfitta del reale. La rabbia è forse l’unico
sentimento distinguibile nella confusa guerra civile che si apre nella città di
Detroit nella notte del 23 luglio 1967, i suoni armoniosi dei gruppi vocali
lasciano il posto ad un rabbioso rumore.
Nel
secondo atto vengono ripresi i pochi personaggi caratterizzati durante il primo
e il contesto lascia il posto ad un’azione. La trama prende piede per
raccontare una storia drammatica tra le molte tragedie di quei giorni. Una
pistola da starter è il pretesto per scatenare la violenza omicida della
polizia locale. La situazione iniziale, tranquilla sull’orlo della crisi,
degenera sempre più mentre vengono scoperte le umanità dei ragazzi del motel e
dei loro seviziatori. Il film si spinge all’apice del ritmo in una spirale di
segregazione e massacri da togliere il fiato per la loro gratuità.
Il
terzo ed ultimo atto dell’opera si slega da una ricostruzione storica
aristotelica, abbandona il campo di battaglia e riprende la storia narrando
brevemente gli eventi salienti dei mesi a seguire. Si tratta del momento della
caccia ai colpevoli, il momento del processo e della (as)soluzione. Nelle
ultime sequenze la regista abbandona il crescendo di ansia e disgusto,
abbandona i colori forti, i rumori, la notte del dramma. Sembra un altro mondo,
un’altra vita, perché la società ha voltato pagina e un processo messo in piedi
dagli stessi torturatori sembra un buon compromesso per superare la crisi
sociale. Ma questo processo agli uomini è la soluzione ideale per le concause
che avevano acceso la miccia della situazione incipiale? Da quelle notti,
immagine di un dolore ben più profondo e tornato in letargo, è rimasto in
sospeso un conto umano e umanitario che ancora oggi continua ad incidere nella
guerra razziale. Sminuire un sostrato ideale che fonda la violenza sociale con
un processo ai colpevoli materiali è un insulto alla memoria di quei giorni e
di ogni situazione di discriminazione della storia. È questo il momento esatto
in cui, da film-reportage tendente alla ricostruzione storica, Detroit si
spinge oltre, con uno sguardo al futuro. Il ragazzo che non è più in grado di cantare
per gli uomini bianchi rappresenta il salto che ancora separa la
realtà dall’immagine che pensiamo essa abbia acquisito in seguito ai nostri
compromessi storici.
Detroit
non è solo esercizio di stile, denuncia sociale o propaganda, si tratta di uno
sguardo attento e posato sulle falle del nostro sistema, è un monito futuro che
non deve essere sottovalutato né dimenticato. Riuscire a parlare di futuro in
questo presente deragliato è un valore assoluto. Quando un messaggio sociale
così alto incontra l’eccellenza tecnica e stilistica, si ottiene il capolavoro
e il film più importante degli ultimi anni.
Kathryn Bigelow riesce a far emergere la vergogna di essere questi uomini.
Kathryn Bigelow riesce a far emergere la vergogna di essere questi uomini.
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