Che valore assume la capacità di piacere nella
valutazione di un’opera? Quando si analizza un film bisogna partire dal
presupposto che i casi in cui l’autore ha voluto riversare se stesso nella sua
creatura senza pensare al giudizio del pubblico sono più unici che rari. A volte
confondiamo il bacino d’utenza a cui un prodotto si rivolge con la singolare
cifra stilistica dell’autore. Non possiamo commettere l’errore di espellere dall’arte
ogni forma d’intrattenimento ed esaltare quindi un non-intrattenimento che ci
eleva. Anche l’opera più elitaria deve avere in sé una comunicabilità, un’accessibilità,
una forma insomma d’intrattenimento che possa arrivare da una soggettività ad
una collettività, perché ogni forma d’arte è la comunicazione di un’idea. Ma come
porsi rispetto ad un’opera, It, che mostra una componente commerciale così
ostentata?
Il punto di partenza è indubbiamente l’ambientazione
scelta per questa prima trasposizione del capolavoro di Stephen King: se nel
libro e nella miniserie tv degli anni ’90 la prima parte delle avventure dei “Losers”
era ambientata nel 1957, nella nuova incarnazione del male l’anno di
riferimento è il 1989. Questo spostamento temporale si colloca appieno nella
moda dilagante negli ultimi anni di riprendere a piene mani dagli anni ’80 per
risvegliare nello spettatore un effetto nostalgia che tende ad esaltare il
cinema per ragazzi di quegli anni. Dai Goonies ad E.T., passando per l’incarnazione
finale della cultura pop di quel periodo: Stranger Things. Senza la serie
Netflix non esisterebbe questo It e il personaggio di Mike-Ritchie rappresenta
l’anello di congiunzione tra i due franchise. La scelta della collocazione temporale
quindi influisce pesantemente sullo stile della narrazione, manipolando alcuni
elementi dell’opera letteraria per inserirci in un contesto che abbiamo ormai
imparato a chiamare Casa. Questo aspetto è fondamentale per generare un forte
sentimento di nostalgia sia durante la visione dell’opera che in una
riflessione a posteriori. Crea un legame di sangue tra la pellicola e lo
spettatore. Tutto ciò non è giustificabile con una volontà autonoma e
trasparente del regista, ma si tratta di una decisione presa a tavolino dai
vari sceneggiatori che hanno lavorato al progetto. Non è un caso che il tanto
atteso ritorno di It abbia trovato la sua realizzazione proprio in questo
periodo storico caratterizzato da un notevole revisionismo.
Per quanto quest’appunto possa apparire critico nei
confronti dell’opera, è innegabile che essa riesca nell’intento di piacere. I
ragazzi protagonisti in primis rompono la quarta parete e ci trasportano con
loro nel magico mondo dell’adolescenza. Ancor più significative sono le relazioni
costruite tra i personaggi, che fanno sentire ancor di più la differenza di
peso tra la nostra realtà e la spensieratezza di un tempo. È probabilmente
nelle scene di quiete che il film dà il meglio di sé, ritmato in maniera
perfetta da una colonna sonora inevitabilmente superiore. Queste sequenze si
bilanciano perfettamente alla componente più orrorifica dell’opera, il vero e proprio
svolgimento dei fatti che comprende il celeberrimo Clown ballerino Pennywise. Il
passaggio dal momento ilare a quello ansiogeno è tanto repentino quanto all’apparenza
naturale, merito di una scrittura che - stavolta per davvero - riesce appieno nel
suo intento. Nel complesso di alcuni dettagli correggibili, è l’empatia a
spiccare vistosamente al di sopra della narrazione e dell’atmosfera costruita.
Forse in questo bilanciamento perfetto a perderci è
proprio l’horror, che nella sua riduzione ad una delle componenti dell’amalgama,
smarrisce la carica di tensione che aveva nell’opera letteraria. Non siamo di
fronte ad un capolavoro del genere proprio perché il genere stesso viene troppo
spesso spezzato da un intento superiore, che è quello di arrivare a tutti i
costi ad un pubblico più ampio, che si traduce con la volontà di piacere. A prescindere
dall’età, ogni spettatore è messo nelle condizioni di identificarsi
direttamente con i protagonisti o di tornare al periodo dell’adolescenza per
vivere un’avvenuta a contatto con la morte che arriva da un mondo di paure e
fobie condiviso. È la storia che tutti abbiamo immaginato e tutti abbiamo la
possibilità di viverla. È un’esperienza globale, e ciò, unito ad una campagna
marketing virale, spiega il successo planetario dell’opera.
It risorge a nuova vita, ma resta a metà tra due generi,
a metà tra due generazioni. Tale via mediana si rivela essere però più una
scelta azzeccata che un mancanza strutturale e il merito del film risulta
essere infine proprio la scrittura a tavolino di cui si diceva in precedenza,
che da possibile elemento di critica diventa il punto di forza della
trasposizione cinematografica. La voglia di piacere stavolta ha vinto sui
generalissimi puristi. A volte la voglia di piacere, semplicemente, piace.
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