Spingersi oltre i limiti di una forma d’arte è
l’obiettivo di chiunque intenda imporsi come punto cruciale dell’evoluzione di
un genere, sia esso musicale o letterario. Caparezza torna come il messia per
indicare la strada ai neofiti perduti nel lasso temporale tra Museica e Prisoner 709.
Dopo aver sviluppato un’idea di musica attraverso la
forma del concept album, Caparezza, al secolo Michele Salvemini fu Mikimix,
tenta una strada alternativa, ancora vergine ma indubbiamente ricca di
potenziale. Il nuovo lavoro rappresenta il tentativo di importare la ricerca
introspettiva nell’ambito rap. Le rime dunque tornano indietro dalla strada
lercia e malfamata per rientrare nel soggetto e sviscerarne le problematiche fondanti. È Caparezza
il soggetto del suo stesso lavoro, rinunciando stavolta alla possibilità dell’alterego,
già utilizzata ne Le dimensioni del mio
caos. Questo espediente realistico connota il messaggio di fondo dell’opera
in maniera molto personale, facendo incontrare l’ascoltatore con una parte
problematica dell’artista.
Caparezza non nasconde il suo stato d’essere, esplicitato
a partire dal titolo dell’album e confermato dal primo singolo estratto: egli
sente di essere prigioniero di se stesso, scisso costantemente tra due
dimensioni, una pratica e una teoretica (7o9). Sono costanti i riferimenti al
mondo della psicanalisi, citata esplicitamente in Forever Jung. La profondità di questo sottotesto, nella novità di
un autore che si apre in questo modo al suo pubblico, rendendo pubblico il
lavoro di psicanalisi che l’ha portato alla scrittura come elemento di cura,
esalta ulteriormente il senso di un’opera speciale, unica. In questo senso
Caparezza sposta ulteriormente l’asticella per i suoi successivi lavori e
soprattutto per le produzioni altrui.
Oltre il contenuto di senso resta un confezionamento
stellare a dare lustro all’opera: dalla qualità del comparto musicale - rara in
un genere in cui la musica è funzionale, non primaria - alla cura maniacale
della scrittura. Un intero album basato sulla numerologia e sulla simbologia ha
aperto all’autore la possibilità di esagerare nella costruzione delle rime più
articolate, tirando in ballo eventi di cronaca, storia della musica e classici della letteratura, senza preoccuparsi
di spingersi oltre il dissing comune e senza l’annosa consapevolezza di sapere
di sapere. Questa atemporalità di Caparezza, lontano dal gusto comune che tende
al basso e al trash, rende eccellente ogni sua rima e sottolinea ancora una
volta - se ce ne fosse bisogno - che l’artista non scrive per piacere, ma piace
perché scrive. Prisoner 709 è quanto
di più lontano e anacronistico dal panorama rap/trap/hip-hop, eppure riesce a
farsi apprezzare anche da chi ha perso l’abitudine ad ascoltare delle perle, perché
la grandezza complessiva dell’opera investe lo spettatore senza che egli sia
conscio della profondità in principio e lo guida alla scoperta dell’uomo alla
ricerca di sé, colui che non si riconosce quando sente chiamare il suo nome.
In sé le problematicità esistenziali sollevate da
Caparezza - eccezion fatta per la questione acufene - potrebbero toccare
ciascuno di noi, indipendentemente dal nostro vissuto o eventuale percorso artistico,
perche in fin dei conti le perplessità umane sul senso della vita tendono a
ritornare ciclicamente. L’eccezionalità del poeta pugliese sta nella modalità e
nella postura con cui lui avvicina il tema, personalizzando problemi della
morale storica in modo inconfondibile.
L’ultimo gioiello di Caparezza è un’opera costruita su
molteplici dimensioni e necessita di svariati ascolti perché sia possibile
cominciare a coglierne la profondità, celata anche nella più semplice rima
sfuggita. E quando un’opera richiede un tale sforzo per poter essere avvicinata
potrebbe davvero nascondere un senso superiore sull’uomo e sulla realtà. Paure,
incitamenti, critiche e riflessioni. Mancano le soluzioni all’enigma dell’essere,
ma per quelle ci sarà tempo. In attesa del prossimo capolavoro annunciato.
Parlare semplicemente di Prisoner 709 e dell’unicita di questo creativo fuori tempo basta
per sminuire tutto l’altro rumore, che a confronto sembra solo un fastidioso fischio
nell’orecchio. Fischia l’orecchio,
infuria l’acufene.
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