È fondamentale essere in grado di proporre ancora
prodotti originali nel panorama della serialità televisiva, ormai inflazionato
in ogni sottogenere. L’esempio più lampante, dopo il successo ottenuto da
Suburra nelle ultime settimane, è quello delle serie sulla criminalità
organizzata, dalla nostrana banda della Magliana al cartello di Calì. Devo
ammettere che, superato il fattore novità, il mio interesse verso questo genere
di prodotti è andato via via scemando nel tempo, sopraffatto dall’incapacità di
rinnovare i canoni e le formule tipici di queste opere. Filone ancora più
prosciugato di idee, dato il tempo e la mole di serie prodotte, è indubbiamente
quello poliziesco/noir; un vero e proprio tripudio di luoghi comuni e finti
depistaggi che tendono sempre, inevitabilmente a ricadere nello stesso effetto
copia-e-incolla. Gli ultimi anni hanno regalato al pubblico poche eccezioni,
tra cui la meravigliosa prima stagione di True Detective (seguita da una
seconda altrettanto valida), ma è proprio dall’atto primo della serie di
Pizzolatto e Fukunaga che bisogna partire per poter parlare in maniera critica
di Mindhunter.
Mindhunter è stata presentata al pubblico internazionale
come “la serie di David Fincher”, nonostante il talentuoso regista curi appena
quattro dei dieci episodi da cui la serie è composta, ma è corretto attribuire
un peso specifico rilevante all’autore di Seven che ha saputo infondere la sua
cifra stilistica ad un progetto che necessitava di una direzione forte per
poter risultare vincente. Dicevamo dell’influenza di True Detective, che ha
raffinato lo sviluppo e la scrittura di Mindhunter verso una commistione di
generi che vanno dal poliziesco al pulp, passando per il dramma esistenziale.
Gli autori sono stati in grado di fondere alla perfezione l’ambito della
ricerca psicologica sui serial killer con i risvolti personali che questi
eventi hanno sulle vite dei protagonisti, ed entrambe le situazioni sono
scritte così minuziosamente, narrate in modo tanto magistrale da non lasciar
trasparire mai alcun foro di proiettile. Accanto all’esempio di True Detective,
analizzando Mindhunter con atteggiamento prospettico, è necessario riconoscere
la grande eredità della serie somma: Breaking Bad. Anche in questo caso assistiamo
all’evoluzione di un personaggio in particolare verso le viscere generate dalla
pericolosità del suo impiego; e la magistralità della serie sta nella capacità
di non mostrare esplicitamente le fasi del mutamento, per arrivare in un finale
a tinte forti a chiedersi come si sia arrivati fin lì, per poi scoprire che
tutta la serie, tutta la narrazione era in realtà l’appoggio per la
giustificazione di questo cambiamento. E la reazione finale dello spettatore è
di estremo stupore, tanto per gli eventi narrati, quanto per la realizzazione
di un prodotto che tende ad andare verso quella conclusione fin dalla prima
inquadratura.
Questa storia in parte oscura è raccontata nel contesto
degli anni ’70, perfettamente riprodotti attraverso una colonna sonora favolosa
e una messa in scena curata fino al minimo dettaglio. Siamo immersi in un
vividissimo realismo che muove i personaggi nell’intreccio, ma è nella
psicologia che ritroviamo la fonte primaria di questo realismo dilagante. La
serie narra degli studi condotti nell’ambito della psicologia criminale per
delineare il profilo del serial killer; le interazioni e le reazioni degli
assassini, sia quelli intervistati per la ricerca che quelli incastrati nel
mezzo delle indagini secondarie, sono guidate da una scrittura saggia che tende
al realismo assoluto per elevare il livello della proposta della serie al di
sopra della media dei gialli attuali. Non è stato fatto uso di semplici
stereotipi, cliffhanger forzati e soluzioni improbabili, ma tutto è decritto
attraverso una lente scientifica che inquieta e affascina. La vera tensione
emotiva arriva dalla consapevolezza della reale plausibilità di quanto viene
mostrato sullo schermo, e nulla genera più angoscia della realtà.
Mindhunter pecca nella prima metà per una narrazione troppo sbrigativa, ma quando cominciano a delinearsi le gerarchie dell'unità comportamentale si manifesta anche il perfetto equilibrio che conduce la serie ad un finale ipnotico. Pur non raggiungendo le profondità più oscure di Rust Cohle, la discesa negli inferi dell'agente Holden Ford merita un'attenzione particolare. Mindhunter è qualcosa che mancava.
Nessun commento:
Posta un commento