Riaprire un capitolo sigillato e suggellato dal tempo. Far
valere la superiorità del capostipite di un genere sul genere stesso a distanza
di trentacinque anni. Risvegliare una fantascienza superata dal reale sviluppo
tecnologico. Ingannare il tempo che è passato. Possiamo analizzare quest’opera
da differenti punti di vista, ma si tende sempre a tornare inevitabilmente a
questo tempo che ci ha lasciato nel 1982 con il dubbio amletico sulla natura di
Rick Deckard e che ora chiede di essere rivalutato. C’è uno sviluppo ideale che
ha preso il via dalla fine di quel capolavoro per tornare a chiudere un
cerchio, o a riaprirlo. È inevitabile che una valutazione sia influenzata dal
nome altisonante che il film di Villeneuve porta, e le sue radici lo
riforniscono di energia e lo prosciugano al tempo stesso.
L’originale era un’opera d’atmosfera, un noir atipico in
cui il fulcro della struttura era la narrazione, non la trama. Il sequel tenta
invece di alzare il livello di complessità e proprio in questa scelta si cela
il reale punto debole della pellicola, che non dimostra di avere una trama all’altezza
del peso specifico che le è stato riservato. E il tono compassato e trionfante talvolta
stona con gli eventi narrati, che non decollano mai davvero verso un’azione di
grande portata, per rimanere in realtà al livello del primo capitolo. Questo non
per sminuire una narrazione che resta magnetica - perché l’argomento è rimasto
affascinante - ma per ridimensionare la portata di una storia meno centrata
rispetto a quella del film precedente. Questa carenza si ripercuote anche nella
caratterizzazione di alcuni personaggi, tra cui il villain annunciato,
interpretato da Jared Leto. In generale - eccezion fatta per K, Joy e Rick - tutti
i personaggi sembrano essere poco approfonditi, tasselli di un quadro troppo
ampio perché ci sia concesso di approfondirli. Spesso le interazioni vengono proposte
come se si trattasse dei primi episodi di una serie tv, che sviscererà successivamente
alcune personalità, ma il film termina prima di ampliare le motivazioni di
alcuni personaggi secondari.
D’altra parte l’opera si impone tra i migliori film del
suo genere per una realizzazione tecnica magnifica, una messa in scena
spettacolare e un protagonista assai significativo. Ogni sequenza è curata nel
minimo dettaglio e produce un coinvolgimento unico: lo spettatore è esposto al
freddo delle scene innevate, è bagnato dalla pioggia sferzante e accaldato dal
deserto dell’incontro. Al pari del primo film, siamo spettatori in prima linea
dell’indagine del protagonista e questo crea un legame empatico non
indifferente con l’agente K, per poi sfociare in un finale drammatico e carico
di pathos. Il problema rimane la parabola della grandezza nel diagramma del
film: se per l’opera del 1982 erano lo sviluppo degli eventi e la coerenza
narrativa ad innalzare la produzione verso la grandezza cinematografica e
culturale, il seguito pretende una base di grandezza che spinge il film anche
quando questo sembra aver raggiunto i limiti della sua scrittura
perfezionabile.
Il confronto alla base della valutazione si risolve con
un nulla di fatto, non riuscendo a distinguere i fantasmi del primo dall’anima
del secondo capitolo. Ma, analizzando Blade Runner 2049 nel suo complesso, non
è possibile negare di trovarsi dinnanzi ad una produzione mastodontica,
completa, superiore. È un evento che merita di essere vissuto sul grande
schermo e rientra di diritto nel novero dei migliori film di fantascienza degli
ultimi anni. L’agente K - interpretato da Ryan Goslin - supera inoltre
concettualmente il personaggio di Rick Deckard, arrivando a toccare profondità esistenziali
inesplorate attraverso la parabola discendente dell’androide alla ricerca di un’identità.
L’inversione del canone originale rinvigorisce una metafora mai doma, sempre
attuale. Siamo di fronte ad un tassello della storia del cinema che, al pari
del suo predecessore, potrebbe rilanciarsi come fondamentale nell’evoluzione
del genere da qui a pochi anni. Sarà ancora il tempo ad offrirci le risposte.
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