sabato 25 giugno 2016

EVERYBODY WANTS SOME!!

Richard Linklater non sbaglia più un colpo, e, dopo il dibattuto ma valido esperimento cinematografico chiamato Boyhood, rimette mano ai suoi esordi per dare vita al seguito spirituale del film del ’93 “Dazed and Confused”, che aveva segnato il suo primo successo, seppur all’epoca fosse ancora un successo di nicchia. In “Dazed and Confused”, il regista-sceneggiatore raccontava nel dettaglio l’ultimo giorno di scuola di un gruppo di liceali americani nel 1976. Per il suo seguito spirituale, Linklater ha adottato una linea simile, concentrandosi sui giorni che precedono l’inizio dell’anno accademico al College e seguendo nello specifico le scorribande scalmanate del gruppo della squadra di baseball. La storia, questa volta ambientata nell’estate del 1980, vede in Jake, giovane matricola, socievole e aperto alla vita, il fulcro della vicenda, il collante che regge insieme una serie di episodi esilaranti e che apre infine le porte ad un’interpretazione più matura dell’opera. Perché, anche in questo caso, Linklater ha dimostrato le sue capacità di scrittura, al di là di quelle registiche - comunque invidiabili -, riuscendo a proporre delle riflessioni costruttive e interessanti attraverso una facciata divertente che ride di se stessa e che lascia un sorriso stampato sul viso dello spettatore. Dietro una serie di personaggi sui generis si nascondono considerazioni profonde sull’essere umani in comunità, sui contrasti, sulle speranze, le delusioni e i cambiamenti che nascono dall’evoluzione e dallo sviluppo di un soggetto in definizione progressiva. A questo proposito, la scelta dell’età e del momento di vita dei protagonisti non è casuale, andando così a scavare all’interno di una criticità notevole, nella quale spesso si perde l’essenza propria dei soggetti, ossia quel periodo che coincide con il passaggio nel mondo degli adulti.


Il messaggio dell’autore non è però così palese e nulla vieta di godersi il film per l’ottima commedia corale e giovanile che comunque resta, ma ciò coinciderebbe con una riduzione della portata dell’opera. Per andare a fondo, è necessario dunque concentrarsi su personaggi e situazioni che potrebbero sembrare secondari, di poco conto. Nello specifico mi riferisco all’amico del liceo, ora punk credente e praticante, e a Willoughby, compagno di squadra del protagonista dedito al rilassamento e alla telepatia. Ma non agli squali, a quelli non pensa affatto.
Nel primo caso, i protagonisti, membri della squadra di baseball, si trovano ogni giorno ad adattarsi ad un nuovo contesto, ad incontrare persone diverse, ad inventare segni zodiacali per far colpo sulla prossima ragazza. Il momento della riflessione è servito dall’invito del ribelle amico del protagonista ad un concerto punk. Jake e Finn si ritrovano ad impersonare il terzo personaggio diverso nel giro di tre sere. Chi sono davvero non è rilevante. Ciò che emerge è la libertà di essere chiunque dietro quei baffi modaioli, dietro il fare da Casanova. Ciò che emerge è la possibilità ancora plausibile di plasmare la loro materia per indirizzare la vita verso l’espressione piena dell’essere, verso l’originalità, verso quel guizzo che accompagna gli adolescenti sognatori e che si spegne tra il castello delle istituzioni, la produttività e la morte interiore della ripetizione. I nostri atleti preferiti dimostrano di avere ancora una materia attiva dentro che continua a produrre vita, al di là delle convenzioni, all’insegna del divertimento e della spensieratezza.


Nel secondo caso, invece, la questione si fa più profonda, con uno sguardo al futuro ed uno ad un passato perso, rimpianto e infrantosi contro l’originalità dell’essere al di fuori della società. Fin da subito Willoughby pare essere quello del gruppo di amici che meno si sposa con lo stile di vita forsennato e frenetico dei suoi nuovi compagni di squadra. Il biondo rilassato preferisce stare in disparte, ascoltare musica psichedelica e non disdegna l’uso di droghe leggere. Incisivo è il suo discorso al protagonista sull’uso proprio che bisogna fare dei propri mezzi, sulla necessità di perpetrare la propria stranezza senza preoccuparsi del giudizio altrui, senza chiudersi per proteggersi. Allo stesso modo però risulta fondamentale la conclusione della linea narrativa del personaggio, alla luce della quale muta anche la riflessione fatta in relazione al primo episodio. Lasciare tutto con il lato oscuro della luna dei Pink Floyd e il sorriso non è da tutti, ma happiness only real when shared e allontanarsi così tanto dall’aggregazione degli uomini può ritorcersi contro lo stesso soggetto. È proprio questo il punto cruciale: la doppia tendenza. Se da una parte è il soggetto a cercare una sua espressione nel mondo, dall’altra la società necessità, per sua struttura, che il soggetto prenda una posizione, e l’incastro imperfetto di questi due movimenti complessi può allontanare l’uomo da se stesso, dall’essere umano, per rincorrere nel tempo l’ombra di quello che avremmo voluto essere, di un giovane collegiale che non siamo più, tra il biliardo e le stelle.

Ciò che resta, dopo la visione di questo film, è però certamente la consapevolezza della libertà, del tempo che è sempre dalla nostra parte, dell’infinità delle possibilità. Perché è il mondo ad essere infinito, infinito e aperto. E le barriere che vediamo, i muri, le costrizioni, le differenze sono solo nella nostra mente. È l’occhio a confinare questo mondo in uno schema chiuso e repressivo. Contro la nostra natura, contro la voglia di continuare a conoscersi nel fiume d’agosto, mentre Mark Knopfler suona. Mano nella mano.

Frontiers are where you see them.

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