domenica 12 giugno 2016

TRAUMI INFANTILI - LA BICICLETTA

Piove. Almeno una volta al giorno, qui piove. Manco fossimo a Londra. Ma nonostante questa pioggia torrentizia, che talvolta ti invita a desistere dall’andare a vedere Motta a Padova - e magari ci volevi andare perché magari t’era piaciuta assai la sua performance al MI AMI - l’estate sta iniziando e la gente comincia ad aver bisogno di cose nuove, cose fresche e leggere. Tipo i gelati, i bagni al largo, gli estathé in fondo al banco frigo e le nuove rubriche dei vostri blog preferiti. Tipo questo blog, che è sicuramente uno dei vostri preferiti. Tipo questa nuova rubrica, fresca e gggiovane. Che magari la gente ad un certo punto si stanca di leggere che siamo tutti uguali, tutti bellini, viva la pace e abbasso Salvini. Lo so, devo aggiornare il repertorio. Ho pensato quindi di proporre questi brevi articoletti da giornalino scolastico per raccontarvi quelli che a posteriore ho riconosciuto come i miei traumi infantili, che poi magari sono anche i vostri. E da dove cominciare se non dal più classico: perché tutti ci siamo caduti da quella maledetta bicicletta.



 Sarà stata la primavera del ’99 e a mio padre gli era presa la fissa che quella bellissima bicicletta blu fiammante (perché c’aveva le fiamme attaccate sopra - anche se erano adesivi, no proprio fiamme vere) aveva avuto le rotelle per troppo tempo. All’epoca abitavo al quinto piano di un palazzo di una serie di palazzi di una serie di due “parchi” (anche se di verde se ne vedeva pochino) appena fuori una città mediamente grande; quindi “andare in giro in bici” equivaleva a fare un paio di giretti nel parco di cui sopra, schivare le colonne e gareggiare con i pari età circumnavigando antiestetici palazzoni di periferia. Un sabato quindi mio padre, che il sabato non lavora e gli piace mettere in ordine le cose che trova sulla sua strada, prese la mia piccola bici dal garage, la portò in casa, le tolse le rotelle nere, plasticose, consumate ma ancora affidabilissime, e mi condusse appena sotto casa nostra. Sull’erba? No. Sulla terra morbidosa? Neanche. Sulla pavimentazione bollente in terracotta, con una mattonella mancante ogni due e spuntoni infernali che avrebbero intimorito anche Pantani. Che è comunque meglio del ghiaino, ma comunque non è il massimo per cominciare a cadere (ups - spoiler!).
Scendemmo. Io, mio padre e mia madre. Mio fratello doveva essere già nato, ma quello era ancora il periodo in cui ero padrone indiscusso della scena, quindi per ora dimentichiamocelo. Inforcai titubante la mia bicicletta e mi diedi una spinta; ma più mi spingevo e ci credevo, e più mettevo i piedi a terra per frenarmi e tornare a guardare “La Carica dei 101”. Ero assai combattuto. Allora mia madre mi prese per il sellino e cominciò a reggere la bicicletta in modo da evitare che si schiantasse con violenza contro le mattonelle rotte a spuntoni , sporchi del sangue degli altri bambini che avevano provato a togliere le rotelle. Un giro, due giro, tre giri, con lei tutto occhei. Quarto giro: mia madre mi teneva stretto come sempre e io cominciai a pedalare con più vigore, più sicuro di me e della vita, della bellezza del mondo. Embè? A quattro anni facevo già pensieri profondi e globali. Presi un po’ più di velocità rispetto ai primi giri, pedalavo davvero come se non ci fosse un domani.

“Mamma, guarda! Mamma, guarda che velocità! Mamma, guarda! Mamma! Mamma!? MAMMA?!?

Mi girai e vidi mia madre e mio padre sorridenti mentre mi salutavano con la manina. Bravi loro! Chè così si fanno i genitori? Che quando ti prende la fissa che uno deve andare senza rotelle gliele togli? E sorridevano, perché per loro il bimbo s’era fatto grande. Io però intanto c’avevo il panico. Iniziai ad agitarmi, a perdere il controllo del mezzo, a muovere nervosamente il manubrio manco fosse una di quelle bici fatte al contrario che giri a destra per andare a sinistra. E caddi, male anche. Una bella strisciata a terra, qualcosa che all’epoca mi parve come cinquanta metri, forse cento. Ma che forse era solo qualche centimetro. Però sono traumi, quando ti giri e non c’è più nessuno a sostenerti. E quindi cadi. Però mà, mi potevi sostenere un altro po’, te possino. M’hai fatto scorticare tutto il ginocchio.

E quando i vostri genitori vi hanno detto la classica frase “Macchè ti lamenti? Io alla tua età mi facevo male apposta”, sappiate che non è vero. e questo l’ho capito solo quando ho deciso che, se un giorno dovessi diventare genitore anch’io - magari un giorno lontano -, lo dirò a mio volta. E gli farò imparare ad andare in bici a tradimento.

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