Era il 1987. Avevo appena compiuto otto anni, Mark frequentava già le
scuole medie. Ci eravamo da poco trasferiti nella casa in fondo a Pilgrim
street, la maleodorante casa di campagna in cui avremmo trascorso pochi mesi,
prima che papà ottenesse il trasferimento in città. Era una casa decadente, con
la carta da parati ammuffita e ingrigita alle pareti. Un bagno di fortuna e
appena due letti matrimoniali dalle lenzuola ingiallite, probabilmente
rosicchiate dai topi nel periodo in cui il luogo era stato disabitato. All’epoca
potevamo permetterci solo quello, eppure conservo ancora un ricordo
meraviglioso di quel posto. Appena fuori dall’uscio secondario di casa, si
apriva a noi una vasta pianura, che non si poteva misurare con gli occhi. Non eravamo
mai stati in un posto del genere, abituati come eravamo alla periferia di
Columbus. Mai avevamo avuto a disposizione spazi così sconfinati per le nostre
scorribande, e questo ci aveva fatto presto dimenticare il degrado della casa
in fondo a Pilgrim street. Passavamo le nostre giornate a rincorrerci, a
fingere di essere soldati su un campo di battaglia. Spesso Mark si divertiva a
nascondermi degli oggetti nei campi dietro casa, per poi disegnare una mappa alla bell'e meglio, che mi avrebbe - almeno secondo i suoi piani - guidato al
ritrovamento del mio prezioso oggetto, che talvolta era un tappo colorato,
altre volte un ritaglio di giornale. Era per me una gioia riuscire a ritrovare
i miei preziosi tesori nella sconfinata campagna, mi faceva sentire davvero
come quegli eroi archeologi della televisione. Capitava però che ci mettessimo
più del previsto, io e Mark, a ritrovare un oggetto nascosto, e dovevamo
rientrare in casa prima che facesse buio. Immagino che a volte neanche mio
fratello sapesse ritrovare gli oggetti da lui stesso seppelliti, tanto erano
ampi quegli spazi.
Un giorno mi prese a mia insaputa il coltellino svizzero
che papà mi aveva regalato per il mio settimo compleanno, quello che il nonno
gli aveva regalato quando lui era un bambino. Scavò una buca e lo nascose molto
lontano da casa. Schiaccio poi il grano attorno alla buca per lasciare un segno
del suo passaggio e, come al solito, disegno uno schizzo della mappa del posto
sul retro di un foglio scarabocchiato. Tornò quindi a casa e mi diede il
foglio, aspettando di seguirmi come un dottore segue il suo fido detective. Ricordo
che quella volta mi arrabbiai molto, gli avevo espressamente detto che avrebbe
potuto nascondermi tutto, tranne il coltellino di papà, al quale ero molto
legato. Lo usavo per intagliare gli arbusti, credendomi un grande artista. Ci sminuzzavo
gli avanzi si cibo per lasciarli agli animali notturni. Non me ne separavo mai.
Superata l’arrabbiatura, partì alla scoperta, convinto di
riuscire a ritrovare il mio amato coltellino. Non volli che mio fratello mi
seguisse perché non avrei sopportato le sue risatine ad ogni svolta sbagliata. Non
questa volta, che l’aveva fatta troppo grossa. Partì e capì subito che
ritrovare il coltello sarebbe stato un’impresa più ardua del solito. Mark all’epoca
era molto bravo a disegnare, e soprattutto a creare queste mappe del tesoro. Riusciva
sempre a riprodurre a grandi linee le proporzioni della realtà, rendendo
possibile il ritrovamento di oggetti anche molto piccoli, anche nascosti
meticolosamente. Notai che l’albero più imponente, quello secco inclinato verso
est, era raffigurato attaccato alla nostra casa. Se non si fosse tratto di un
errore, allora la X sarebbe potuta essere anche a due chilometri dal punto di
partenza. Il sole cominciava già ad essere meno aggressivo quando mi incamminai
verso nord. Superai la casa della signora Lathimer, scavalcai la recinzione per
le volpi degli Smith, e arrivai alla linea dei covoni. Io e Mark non ci eravamo
mai spinti oltre, nostra madre aveva posto quella linea come il limite delle
nostre avventure, ma se la mappa indicava oltre la linea dei covoni, allora anche
Mark l’aveva oltrepassata. Mi feci coraggio, pronto ad inventare una scusa poco
credibile nel caso in cui mia madre avesse scoperto il fatto, e proseguì il mio
viaggio. Il sole stava cominciando a calare quando vidi in lontananza un vuoto
nel grano rigoglioso, un cerchio mancante. Nel rosso del tramonto, presi a
correre verso la meta. Scostai le ultime spighe e scoprì un cerchio
perfetto di grano bruciato, grano nero. Del mio coltellino neanche l’ombra. Il sole
era ormai tramontato e l’imbrunire galoppava, quando sentì una brezza fredda
sferzarmi il volto da destra. Quando mi voltai, mi accorsi di essere molto
vicino ad un’abitazione particolare. Bassa, con le finestre sbarrate, un buco
nel tetto e grano bruciato tutto intorno. Tutta la casa, dalla maniglia della
porta alla finestra circolare del piano della mansarda, era di un nero pece
profondo come il buio.
Impaurito e con le mani remanti, udì una voce bisbigliare
qualcosa, prima indistintamente, poi riconobbi il mio nome.
“Kevin”
Con gli occhi carichi di paura cominciai a scappare verso
casa, senza voltarmi indietro. Inciampai nella recinzione degli Smith, caddi,
ma mi rialzai rapidamente e ricominciai a correre. In pochi minuti tornai a vedere
casa mia. Il cielo era ormai scuro. Scavalcai la staccionata. Mia madre mi
aspettava sulla soglia di casa con sguardo severo. La scostai con forza.
“Ehi, giovanotto! Dove scappi?”
“Mark! Mark! Ho visto
una casa abbandonata, era in un campo di grano nero”.
Continua