Il 2016 è stato l’anno della svolta: centinaia di
migliaia di giovani mossi da nuove sonorità, nuovi idoli, nuovi orizzonti. È possibile
che questo movimento abbia già esaurito il suo slancio vitale? Ma facciamo un
passo indietro: cos’è l’indie? Potremmo dire che individuare una data d’inizio
del genere indie sia pressoché impossibile, sia perché esso è nato
contemporaneamente alla musica prodotta dalle major discografiche, sia perché definire
l’indie un “genere” sarebbe alquanto improprio. Se per indie intendiamo tutto
ciò che esula dalle produzioni maggiori, allora si perde il senso di univocità
musicale per una definizione puramente tecnica. Culturalmente siamo abituati ad
identificare un possibile genere musicale indie con la scena britpop o quella
dell’underground americano anni ’90. Ma il 2016 italiano ha avuto il merito di
riscrivere questo genere in un’accezione propriamente nostrana.
Il 2016 è stato l’anno di Calcutta e di Motta, degli Ex Otago
e dei Cani. L’anno di Cosmo. Artisti che hanno saputo esprimere un pop italiano
che andasse fuori dai canoni della musica leggera, esaudendo i desideri di una
larga schiera di ascoltatori alla ricerca di una rappresentazione musicale nostrana
in cui ritrovarsi. Avevano compreso il senso della musica indipendente: slegata
da un commercio intensivo, ormai ristagnante, e libera nell’espressione di un
gusto artistico nuovo per il pubblico italiano meno abituato ad un ascolto
internazionale. Non avevamo compreso noi il senso di un anno zero per la
musica, confondendo l’arte e la modalità di fruizione del prodotto.
L’esempio che ha rotto gli argini della finzione è stato “Cambogia”,
artista indie in rampa di lancio, rivelatosi un troll costruito fin dalle prime
note per sperimentare la facilità dell’ambiente indie italiano, ormai
assuefatto da prodotti troppi simili per poter essere ancora l’espressione di
quella genuina libertà iniziale. La rivelazione sulle pagine di Noisey, a metà
tra sfottò e venerazione per quello che a tutti gli effetti è diventato
realmente un punto di riferimento del genere musicale.
"Cambogia non esiste.
Cambogia è un personaggio di fantasia creato da Ground's Oranges. Il progetto
nasce ad agosto 2016 come estremizzazione della figura del cantante indie e
come esperimento sociale volto a sottolineare la maggiore importanza attribuita
all'hype rispetto alla reale proposta musicale. Andrea, che voi identificate
come Cambogia, non sa cantare e non sa suonare, non è nemmeno un attore, è solo
un amico che ha prestato il volto giusto a questa causa. [...]”
Cambogia ha smascherato un’industria florida, alimentata
dalla necessità popolare di un nuovo canone obsoleto. Il movimento indie è
esondato, ha trasceso l’essenzialità
della componente musicale - ormai riconducibile un modello standardizzato - per
rispecchiarsi in un canone umano in linea con i tempi. E questa semplificazione
della realtà che sta dietro la composizione artistica ha definitivamente
affossato l’originalità degli artisti che si affacciano nel mondo indipendente. Non
è più lo sfogo artistico di una generazione oppressa in un paese immobile, ma
il nuovo canone “artistico” che ha cristallizzato nuovamente il movimento
giovanile, impedendogli un progresso rilevante. E qui muore il movimento indie,
quando non è più in grado di rappresentare l’innovazione della scena musicale
pop, ma contribuisce solamente ad affossare l’aspirazione di una nuova
discografia. I legami che potevano rendere l’ambiente unito da nord a sud, si
sono rivelati catene dell’anonimato, le maschere bruciate da Cambogia.
Ma tanta parte di questo fallimento artistico nostrano è
da attribuire al pubblico di questa nuova ondata musicale, nel quale, per certi
versi, mi includo, avendo creduto, agli albori di questa realtà, che l’indie,
inteso come contenitore, potesse risollevare le sorti di un mercato senza
futuro. Noi fruitori abbiamo trasceso la musica alla ricerca di una forma di
riconoscimento sociale che ci portasse verso il futuro, e invece siamo caduti
nella melma del riciclo di un mondo passato, che nulla propone di nuovo, se non
un paio di synth. Avevamo bisogno di identificarci in qualcosa, invidiosi del
metal sottobosco e della crescente ondata trap, ma altrettanto altezzosi da
non ammettere le nostre necessità.
Il movimento indie italiano, sia come contenitore di
sperimentazioni che come genere vero e proprio, è già morto. Restano però
alcuni artisti, coloro che sono stati inclusi in questo fallimento che arranca
e che invece meritano di sopravvivere alla fine del genere. Che probabilmente
sono sempre stati mossi da un’altra aspirazione: la musica. Iosonouncane, Cosmo, Populous, Motta.
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