Le cover, quelle serie, quelle curate - non quelle
amatoriali di Asia Ghergo -, non sono affatto da disprezzare. Talvolta possono
essere in grado di riabilitare un brano, riportarlo in auge dopo decenni di
anonimato o addirittura ridare ad un pezzo un senso che non aveva mai avuto. Bisogna però rispettare alcuni principi e soprattutto
rispettare il valore storico e musicale che alcuni brani si portano dietro fin
dalla loro composizione. Non è possibile riproporre un pezzo esattamente
identico all’originale, perché, anche da un punto di vista discografico, una manovra di questo tipo non
avrebbe senso, e allo stesso tempo bisogna prestare
attenzione a non allontanarsi eccessivamente dal concept di partenza, qualora
questo fosse il cardine del brano. Stravolgere l’arrangiamento è possibile
finché la coscienza del pezzo lo permette ma quando sono le note stesse, oltre
al testo, a rappresentare il senso del successo di un pezzo della storia della
musica, allora sarebbe il caso di rivolgersi altrove se si è alla ricerca di
cover facili. Non tutti gli album si prestano perfettamente all’opera di
coverizzazione e non basta la volontà di ridare senso al tempo a giustificare una mossa commerciale del
genere.
Un autore affermato, dotato di una certa cifra stilistica, è chiamato a
rispettare al contempo l’oggetto della cover e se stesso per lasciare la sua
impronta al di sopra del brano da reinterpretare. In questo modo il campo si
restringe ancora di più, sacrificando tutti gli album che non possono
idealmente rientrare in uno stile compositivo senza causare delle difficoltà
superiori. Michael Bublé ha nel suo repertorio una serie di cover che hanno
raggiunto il successo mondiale proprio perché l’autore italo-canadese è stato
in grado di coniugare la sua cifra stilistica pop-blues con il rispetto dei
mostri sacri ai quali si è avvicinato.
Ma gli esempi si sprecano; uno fra
tutti, Johnny Cash, che si rilanciò negli ultimi anni di carriera con la serie “American
Recordings”. Questi album, di cui due postumi, contenevano alcune cover famose,
tra cui spicca certamente “Hurt”, incisa originariamente dai Nine Inch Nails. “Hurt”
è la summa di una carriera, di una vita e di uno stile, nel rispetto del
capolavoro, che questa volta deve essere attribuito a Trent Reznor.
Valutare un’opera “in prestito” deve quindi esulare dalle
categorie classiche di giudizio e focalizzarsi su aspetti ritenuti secondari,
che guardano dietro la musica, al passato, alle esperienze e alle individualità.
Pochi giorni fa, navigando tra le novità di Deezer, mi
sono imbattuto in un nuovo album di Passenger, artista folk statuniteste famoso
per la sublime “Let her go”. Avendo apprezzato i precedenti lavori dell’artista,
ho concesso una possibilità a “Sunday night session” nonostante si trattasse di
una raccolta di brani non originali. E mi duole ammettere che Passenger, a mio
parere, sia andato totalmente fuori tema: nel tentativo apprezzabile di
condividere le musiche della sua maturazione nel suo stile particolare -
caratterizzato dalla predominanza del binomio voce-chitarra - l’autore ha mancato
di confrontarsi con la grandezza dei suoi avi artistici, schiantandosi
clamorosamente a bordo di pezzi mediocri, banali e inutili. Ma vorrei
soffermarmi in particolar modo su “Love will tear us part”, cover dello storico
brano del 1980 dei Joy Division.
“Love will tear us apart” fu un manifesto assoluto di ciò
che i Joy Division avevano rappresentato nella loro breve storia. Il brano fu scritto
nel 1979 dallo stesso Ian Curtis, ma venne pubblicato come singolo solo nel
giugno del 1980, stampato su un 7’’, ad un mese di distanza dalla morte dell’autore.
Divenne quindi in brevissimo tempo il volto di una band senza volto. Il più
grande successo commerciale dei Joy Division.
Cover del 7'' |
Nelle parole della canzone erano presenti diretti
richiami alla catastrofica situazione sentimentale di Ian Curtis nel 1979,
situazione che avrebbe contribuito poi a maturare in lui l’idea del suicidio,
come raccontato minuziosamente nel film biografico “Control”. Ma è dall’interpretazione
che emerge il senso delle parole di Curtis: rabbiosa e rassegnata, triste e malinconica,
profonda, fredda e solitaria, come l’anima di Ian Curtis. In un brano racchiusa
l’essenza di un uomo.
Passenger è stato in grado di ammorbidire il senso della
canzone, di privarla della sua forza dirompente, di estirpare da essa la
matrice Joy Division e lo spirito di Curtis, producendo un pezzo inconsistente,
più vicino ad essere una canzone da mettere in sottofondo nelle afose serate in
spiaggia piuttosto che il manifesto d’amore di una generazione sovversiva. E questa
per me rimane, al di là della questione musicale, la peggior cover dell’anno.
Ubi maior minor cessat.
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