martedì 22 dicembre 2015

COMMENTO THE KNICK 2 - FINALE

Il rumore della caduta degli dei echeggia ancora nella torbida aria di New York. Il risveglio dopo il finale di The Knick è amaro: la serie ha perso il fulcro, la colonna, ma l’ha fatto con grande stile e coerenza. Le mie più cupe previsioni si sono realizzate appieno, e il dottor Thack, vero collante dell’intero cast, calamita infinita dal baffo iconico, ci ha lasciato in un eccesso di onnipotenza, dovuto anche e soprattutto al drammatico momento del dottore. Se n’è andato con una frase, il titolo più emblematico, con una consapevolezza di quanto sia labile la distanza tra l’olimpo e il baratro della morte. In realtà il primario era già morto prima di entrare in sala operatoria ricolmo di droghe, morte interiore. L’operazione azzardata su se stesso è sembrata l’unica via d’uscita da un tunnel di depressione che l’aveva ormai reso uno spettro senz’anima. L’operazione avrebbe potuto salvargli la vita sia fisicamente che metaforicamente, o ucciderlo definitivamente. Il fato ha voluto questa seconda possibilità. L’ultimo attimo di vita di Thack credo sia il suo sguardo al telefono, prima di cadere di nuovo vittima della dipendenza da cocaina pre-operazione; momento che richiama esplicitamente la scena in cui, diversi episodi fa, il dottore era riuscito a resistere alle sue pulsioni grazie ad una chiamata all’amata Abigail. Ma Abigail è andata a causa dell’etere, si presume, e con lei anche la lucidità del protagonista.  E se non fosse morto? E se quella siringa di adrenalina avesse riportato in vita lo sciagurato medico? Personalmente non credo possibile ciò, è l’ultima scena, che vede Edwards compiere la “sua” volontà, mi pare eloquente quanto basta per dire addio all’uomo copertina della serie.


Una situazione da me preventivata settimane fa, una possibilità, quella della morte illustre, che ormai circolava da un po’ e che forse rappresentava l’unico colpo di scena efficace a decretare la grandezza di questa seconda stagione, almeno fino alla vigilia di quest’episodio, perché altri colpi di scena inaspettati hanno confermato, qualora ce ne fosse ancora bisogno, le straordinarie capacità degli sceneggiatori della serie. La scelta di unificare le colpe per i misteri finora insoluti della serie nel personaggio di Henry Robertson, se analizzata nel suo complesso, e quindi dopo essere rimasti vari minuti con la bocca spalancata per lo stupore, rivela degli aspetti positivi e forse troppi negativi. Indubbiamente questa svolta gioverà alla serie per quanto riguarda la trama, che quindi si continua ad arricchire di spunti interessanti da sfruttare in futuro, ma la figura del cattivo-doppiogiochista-vincitore di turno stona non poco con il contesto credibilissimo creato finora. Dall’inizio della serie abbiamo sempre avuto a che fare con personaggi molto realistici e quindi mai buoni o cattivi (per dirla con termini infantili), ma sempre variegati. Tale variazione rendeva loro credibili e quindi perfettamente calati nel contesto della serie. Per fare un esempio, il dottore più odiato del Knick è stato fin da subito Everett, sia per i modi che per le sue teorie, che al giorno d’oggi definiremmo razziste e antiquate; ma, attraverso il racconto della vita privata del personaggio, siamo talvolta riusciti ad empatizzare con questo, evidentemente frustrato e depresso per le disgrazie avvenute e causate dalla sua moglie ormai internata. Questa complessa sovrapposizione di mondi distaccati è mancata al personaggio di Henry dalla rivelazione in poi rendendolo più simile ad un cattivo del cinema americano che ad un complesso e complessato protagonista della serie di Soderbergh. Un peccato, considerata anche la validità della spirale proposta attraverso le indagini della sorella dell’imputato, Cornelia. Il personaggio della donna è infatti servito agli autori per allargare sempre più il quadro della serie senza però perdere d’occhio le vicende del Knick,e infine, da buona spirale costruita con criterio e ingegno, tutta l’indagine si è ricollegata ad un unico personaggio interno all’ospedale e addirittura alla famiglia Robertson stessa. Un tocco di classe promesso e mantenuto, ma purtroppo oscurato parzialmente da qualche scelta poco felice.


Il quadro generale della serie, in vista di una terza stagione che spero annuncino a breve per il bene dell’umanità intera, appare quindi molto modificato: il nuovo Knick, andato in fiamme in seguito all’incendio appiccato dallo stesso Henry Robertson, non verrà ricostruito sulle ceneri del precedente e quindi vedremo ancora per molto i nostri corridoi preferiti, ma ciò non rappresenta un grande cambiamento della situazione attuale, piuttosto di quella potenziale che avevamo pregustato fin dalla fine della prima stagione.. ciò che invece, secondo le previsioni, verrà drasticamente rivoluzionato, attraverso il time skip che mi auguro venga inserito tra la seconda e la terza stagione, è lo staff dell’ospedale. Con la dipartita di Thack, la partenza di Everett verso il vecchio continente, l’abbandono della proprietà da parte dei Robertson, la fuga di Cornelia per sfuggire alla lucida follia del fratello, il congedo dell’infermiera Lucy, ormai abituatasi alla vita aristocratica, e il probabile esonero dall’incarico di Barrow, i protagonisti sicuri, o quasi, di un posto stabile al Knick sembrano essere solamente Bertie ed Algernon, menomato però dall’ultimo scontro con il suo acerrimo nemico. Da quest’analisi otterrebbe ulteriori conferme la teoria da me proposta qualche mese fa secondo cui, al termine della seconda stagione ed in seguito alla scomparsa di Thack, le attenzioni degli sceneggiatori si sarebbero concentrate maggiormente sul personaggio di Bertie, che ha giovato d questi episodi per maturate sia umanamente che come chirurgo e ricercatore.


In generale, con questa seconda stagione di the Knick, Soderbergh e i suoi hanno vinto la loro personalissima scommessa riuscendo a bissare il successo della prima. È mancato però il salto di qualità definitivo che sdoganasse questa serie per il grande pubblico, ma forse è stato meglio così. L’ampliamento del cast, delle storie e degli ambienti è stato graduale e cucito alla perfezione sul consueto svolgimento della trama principale, il che l’ha reso pressoché invisibile. Lo sviluppo dei personaggi è stato convincente e coerente, ma maggiori pretese hanno inevitabilmente lasciato spazio sufficiente per qualche piccola caduta di stile anche in questo specifico frangente, il ché non ha però inficiato la validità dello sviluppo generale. La caratterizzazione più controversa però, alla luce del drammatico finale, è stata proprio quella del protagonista Thack, il quale ha perso molte certezze e non ha saputo reagire come avrebbe fatto il chirurgo John Thackery della prima stagione. Un lento declino forse non inesorabile, ma dopotutto una morte ben realizzata e trasposta sullo schermo. La palma di miglior personaggio va invece a Bertie, che da ragazzo insolente e raccomandato si è rivelato essere cresciuto e quindi all’altezza delle gravose situazioni in cui si è trovato in questi episodi.


La terza stagione sarà fondamentale per riuscire a dare un giudizio complessivo e definitivo sull’intera opera. Dalla terza si capirà se siamo di fronte ad un Dr House migliorato in molti suoi aspetti o ad una serie similstorica che andrà meramente a sfociare in questioni di gossip e relazioni pericolose. Una sorta di Beautiful moderno. Ma io propendo decisamente per la prima ipotesi.


Sperando si avervi tenuto compagnia per un po’, sperando in una stagione migliore, sperando che Thack non torni dal nulla rovinando mesi di speculazioni e attese, sperando di rivederci presto per una nuova serie di commenti, a presto.

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