Il rumore della caduta degli dei echeggia ancora nella
torbida aria di New York. Il risveglio dopo il finale di The Knick è amaro: la
serie ha perso il fulcro, la colonna, ma l’ha fatto con grande stile e coerenza.
Le mie più cupe previsioni si sono realizzate appieno, e il dottor Thack, vero
collante dell’intero cast, calamita infinita dal baffo iconico, ci ha lasciato
in un eccesso di onnipotenza, dovuto anche e soprattutto al drammatico momento
del dottore. Se n’è andato con una frase, il titolo più emblematico, con una
consapevolezza di quanto sia labile la distanza tra l’olimpo e il baratro della
morte. In realtà il primario era già morto prima di entrare in sala operatoria
ricolmo di droghe, morte interiore. L’operazione azzardata su se stesso è
sembrata l’unica via d’uscita da un tunnel di depressione che l’aveva ormai
reso uno spettro senz’anima. L’operazione avrebbe potuto salvargli la vita sia
fisicamente che metaforicamente, o ucciderlo definitivamente. Il fato ha voluto
questa seconda possibilità. L’ultimo attimo di vita di Thack credo sia il suo sguardo al telefono, prima di cadere di nuovo vittima della dipendenza da
cocaina pre-operazione; momento che richiama esplicitamente la scena in cui,
diversi episodi fa, il dottore era riuscito a resistere alle sue pulsioni grazie
ad una chiamata all’amata Abigail. Ma Abigail è andata a causa dell’etere, si
presume, e con lei anche la lucidità del protagonista. E se non fosse morto? E se quella siringa di
adrenalina avesse riportato in vita lo sciagurato medico? Personalmente non
credo possibile ciò, è l’ultima scena, che vede Edwards compiere la “sua”
volontà, mi pare eloquente quanto basta per dire addio all’uomo copertina della
serie.
Una situazione da me preventivata settimane fa, una
possibilità, quella della morte illustre, che ormai circolava da un po’ e che
forse rappresentava l’unico colpo di scena efficace a decretare la grandezza di
questa seconda stagione, almeno fino alla vigilia di quest’episodio, perché altri
colpi di scena inaspettati hanno confermato, qualora ce ne fosse ancora
bisogno, le straordinarie capacità degli sceneggiatori della serie. La scelta
di unificare le colpe per i misteri finora insoluti della serie nel personaggio
di Henry Robertson, se analizzata nel suo complesso, e quindi dopo essere
rimasti vari minuti con la bocca spalancata per lo stupore, rivela degli
aspetti positivi e forse troppi negativi. Indubbiamente questa svolta gioverà
alla serie per quanto riguarda la trama, che quindi si continua ad arricchire
di spunti interessanti da sfruttare in futuro, ma la figura del cattivo-doppiogiochista-vincitore
di turno stona non poco con il contesto credibilissimo creato finora. Dall’inizio
della serie abbiamo sempre avuto a che fare con personaggi molto realistici e
quindi mai buoni o cattivi (per dirla con termini infantili), ma sempre
variegati. Tale variazione rendeva loro credibili e quindi perfettamente calati
nel contesto della serie. Per fare un esempio, il dottore più odiato del Knick
è stato fin da subito Everett, sia per i modi che per le sue teorie, che al
giorno d’oggi definiremmo razziste e antiquate; ma, attraverso il racconto
della vita privata del personaggio, siamo talvolta riusciti ad empatizzare con
questo, evidentemente frustrato e depresso per le disgrazie avvenute e causate
dalla sua moglie ormai internata. Questa complessa sovrapposizione di mondi
distaccati è mancata al personaggio di Henry dalla rivelazione in poi
rendendolo più simile ad un cattivo del cinema americano che ad un complesso e
complessato protagonista della serie di Soderbergh. Un peccato, considerata
anche la validità della spirale proposta attraverso le indagini della sorella
dell’imputato, Cornelia. Il personaggio della donna è infatti servito agli
autori per allargare sempre più il quadro della serie senza però perdere d’occhio
le vicende del Knick,e infine, da buona spirale costruita con criterio e
ingegno, tutta l’indagine si è ricollegata ad un unico personaggio interno all’ospedale
e addirittura alla famiglia Robertson stessa. Un tocco di classe promesso e
mantenuto, ma purtroppo oscurato parzialmente da qualche scelta poco felice.
Il quadro generale della serie, in vista di una terza
stagione che spero annuncino a breve per il bene dell’umanità intera, appare
quindi molto modificato: il nuovo Knick, andato in fiamme in seguito all’incendio
appiccato dallo stesso Henry Robertson, non verrà ricostruito sulle ceneri del
precedente e quindi vedremo ancora per molto i nostri corridoi preferiti, ma
ciò non rappresenta un grande cambiamento della situazione attuale, piuttosto
di quella potenziale che avevamo pregustato fin dalla fine della prima
stagione.. ciò che invece, secondo le previsioni, verrà drasticamente
rivoluzionato, attraverso il time skip che mi auguro venga inserito tra la
seconda e la terza stagione, è lo staff dell’ospedale. Con la dipartita di
Thack, la partenza di Everett verso il vecchio continente, l’abbandono della
proprietà da parte dei Robertson, la fuga di Cornelia per sfuggire alla lucida
follia del fratello, il congedo dell’infermiera Lucy, ormai abituatasi alla
vita aristocratica, e il probabile esonero dall’incarico di Barrow, i
protagonisti sicuri, o quasi, di un posto stabile al Knick sembrano essere
solamente Bertie ed Algernon, menomato però dall’ultimo scontro con il suo
acerrimo nemico. Da quest’analisi otterrebbe ulteriori conferme la teoria da me
proposta qualche mese fa secondo cui, al termine della seconda stagione ed in
seguito alla scomparsa di Thack, le attenzioni degli sceneggiatori si sarebbero
concentrate maggiormente sul personaggio di Bertie, che ha giovato d questi
episodi per maturate sia umanamente che come chirurgo e ricercatore.
In generale, con questa seconda stagione di the Knick, Soderbergh
e i suoi hanno vinto la loro personalissima scommessa riuscendo a bissare il
successo della prima. È mancato però il salto di qualità definitivo che
sdoganasse questa serie per il grande pubblico, ma forse è stato meglio così. L’ampliamento
del cast, delle storie e degli ambienti è stato graduale e cucito alla
perfezione sul consueto svolgimento della trama principale, il che l’ha reso
pressoché invisibile. Lo sviluppo dei personaggi è stato convincente e
coerente, ma maggiori pretese hanno inevitabilmente lasciato spazio sufficiente
per qualche piccola caduta di stile anche in questo specifico frangente, il ché
non ha però inficiato la validità dello sviluppo generale. La caratterizzazione
più controversa però, alla luce del drammatico finale, è stata proprio quella del
protagonista Thack, il quale ha perso molte certezze e non ha saputo reagire
come avrebbe fatto il chirurgo John Thackery della prima stagione. Un lento
declino forse non inesorabile, ma dopotutto una morte ben realizzata e
trasposta sullo schermo. La palma di miglior personaggio va invece a Bertie,
che da ragazzo insolente e raccomandato si è rivelato essere cresciuto e quindi
all’altezza delle gravose situazioni in cui si è trovato in questi episodi.
La terza stagione sarà fondamentale per riuscire a dare
un giudizio complessivo e definitivo sull’intera opera. Dalla terza si capirà
se siamo di fronte ad un Dr House migliorato in molti suoi aspetti o ad una
serie similstorica che andrà meramente a sfociare in questioni di gossip e
relazioni pericolose. Una sorta di Beautiful moderno. Ma io propendo
decisamente per la prima ipotesi.
Sperando si avervi tenuto compagnia per un po’, sperando
in una stagione migliore, sperando che Thack non torni dal nulla rovinando mesi
di speculazioni e attese, sperando di rivederci presto per una nuova serie di
commenti, a presto.
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