Luciano Ligabue, nato a Correggio, in Emilia, nel 1960.
Professione? Cantante, ma non solo, perché tra la fine degli anni ’90 e i primi
Duemila l’artista ha firmato anche due lungometraggi passati in sordina ma
colmi di spunti interessanti da approfondire. I film in questione sono Radiofreccia
del 1998 e Da Zero a Dieci, uscito nelle sale quattro anni più tardi e
presentato fuori concorso al festival di Cannes. Anche se ambientati a
vent’anni di distanza l’uno dall’altro, i due film nascondono un sottile
collegamento: il protagonista di Radiofreccia è infatti Ivan Benassi, fratello maggiore
di Giovanni Benassi, fulcro della seconda opera; ma ciò poco conta, perché, a
parte un'evidente e malinconica citazione iniziale, i due prodotti esplorano aree dell’immenso animo
umano totalmente opposte e legate a momenti di vita, sogni, aspirazioni e
debolezze diverse.
Prima di addentrarci nella profonda psiche del Rocker di
Correggio, consiglio la visione di “Ligastory - Aspettando Campovolo - Parte
Prima” che indaga i primi passi nel mondo della musica per l’artista emiliano e
restituisce una visione a tutto tondo della giovinezza in provincia negli anni
’70, tema centrale del primo film. Interessante anche il docufilm di Piergiorgio Gay “Niente Paura” che invece mostra dei connotati più generali,
politici, nazionali e attuali dell’artista.
Freccia è un ragazzo di Correggio che passa le sue
giornate tra un lavoro in fabbrica che non lo realizza affatto e la compagnia
dei soliti amici, quelli del Bar di Adolfo (un grande Guccini all’acido
muriatico). Sembra che la vita vada in una certa direzione e che le delusioni e
i rammarichi siano costretti solo ad accumularsi su una schiena già piegata dal
tempo e dagli stenti, quando entra in gioco l’eroina. In punta di piedi. Entra
ma non la si vede, si intuisce qualcosa o quasi tutto, ma ciò che viene mostrato
è solo l’effetto che ha sul protagonista quando questi non ne fa uso da troppo
ed è costretto a tradire, rubare per procurarsi una dose. Ma il film non è solo
questo: l’altro tema centrale, come suggerito dal titolo, è quello della
nascita delle radio libere in Italia, nello specifico Radio Raptus, poi Radio
Raptus International e infine Radiofreccia in onore alla figura del giovane e
scapestrato Ivan. In realtà lo scopo di Luciano era quello di indagare la mente
di un gruppo di giovani ricchi di spirito ma oppressi dalla realtà rurale e
dalla società bigotta e conformista dell’epoca. Ragazzi che hanno la loro da
dire al mondo, ma, purtroppo o per fortuna, la loro non corrisponde a ciò che
il mondo vorrebbe che fosse, e allora non rimane che rifugiarsi nelle radio,
simbolo universale di libertà e freschezza, allora non rimane che sfogarsi,
essere se stessi e continuare a vivere
nonostante il mondo. Emblematico e indimenticabile il monologo di Freccia in
cui cerca di mettere in circolo il suo pensiero. Forse non è in grado di
credere in ciò in cui gli dicono di credere, ma comunque Crede. Ligabue era un
ragazzo ribelle e disilluso negli anni ’70 e lui stesso ha vissuto in prima
persona il fenomeno delle radio, lui stesso ha tentato di scappare da un paesino
di ventimila abitanti (che poi è come scappare da se stessi). Tutto ciò che
vediamo in questo lungometraggio è la trasposizione dell’analisi più matura di
un uomo che guarda nostalgicamente e capisce l’importanza di quel periodo per
la formazione di un uomo e vuole esprimere questo pensiero attraverso le
musiche degli Who e una storia di trasgressione e morte.
Da Zero a Dieci invece si apre vent’anni dopo con una
fantastica sequenza incentrata sui voti della vita sulle note di Baba O’Riley.
I voti sono infatti il tema centrale dell’opera, o meglio l’emblema della crisi
di una generazione che non si riconosce più nei giovani, ma non ha ancora
ceduto il passo alla maturità, quella degli ultratrentenni, giovani dentro ma
non per le mode, non per gli altri, solo dei consumatori meno interessanti.
Quattro amici decidono quindi di concludere un week end a Rimini dopo due
decenni e, per fare ciò, contattano le ragazze che all’epoca avevano conosciuto
sulla riviera romagnola e si affidano ai bizzarri non-compleanni di Libero,
frustrato e in dialisi, ma ancora in transito. Il film però nasconde un doppio
fondo abbastanza evidente: Ligabue ha infatti cercato di unire alle tematiche
generazionali la strage di Bologna dell' 80’, onestamente con fortune alterne. In
alcuni frangenti sembra poterci stare l’aspetto storico e socialmente
impegnato, in altri stona terribilmente.
Due prodotti quindi molto complessi a dispetto di un
facciata semplice e popolare, in scia con il pop-rock dell’artista emiliano. I
film in sé peccano non poco dal punto di vista della scrittura e della
realizzazione tecnica. Troppo frequentemente si sente la mano di un regista che
non nasce regista e, se prese dal verso sbagliato, le due opere potrebbero
sembrare un’accozzaglia di luoghi comuni, battute surreali e personaggi sopra
le righe. A volte sembra che entrambi siano più delle raccolte di racconti,
aneddoti particolari e simbolicamente importanti narrati su pellicola. In
questo si nota la pecca nella scrittura dei personaggi da parte del regista.
Altro punto a sfavore delle due pellicole è la totale assenza di personaggi
femminili degni di nota. In Radiofreccia questi mancano totalmente, mentre in
Da Zero a Dieci dovrebbero rappresentare la controparte dei protagonisti
maschili, ma alla lunga mostrano delle lacune enormi e vengono relegate a
semplici fantocci, comparse utili all’espressione di problematiche più grandi
legate al genere umano in generale. A
tratti, per il pesante simbolismo usato,i due film del Rocker di Correggio, con
le dovute proporzioni del caso, si avvicinano a quelli del premio oscar Paolo
Sorrentino. Perché allora preferire Ligabue al genio napoletano? Premettendo di
anteporre su tutta la linea i film del regista di Gomorra (o forse no, eh
Boris?), anche le opere del Lucianone nazionale meritano un’attenta visione,
poiché rappresentano la semplicità nella complessità. Sono opere cariche di
messaggi, situazioni e citazioni prese dalla cultura popolare media italiana.
Tutti possono riconoscersi nei dubbi esistenziali di Giove o nei “Perché no” di
Freccia, due personaggi vicini a noi, semplici, comuni. Sicuramente meno
complessi, complessati e altezzosi di Jep Gambardella (che ho comunque amato).
Due film per tutti o per nessuno, dipende dalla capacità dello spettatore di
scavare a fondo nell’uso di metafore semplici e quotidiane appartenenti alla
ruralità italiana.
La vera chiave di lettura è quindi lo stesso Ligabue, o
meglio come egli vede e ha vissuto determinati momenti cruciali della vita di
un uomo. Per comprendere a fondo i messaggi di due opere nate dal cuore sincero
di un acuto osservatore della realtà, bisogna immedesimarsi nella figura del
cantante e pensare che in ogni film egli c’è ma non c’è. Egli non è fisicamente
presente in scena (camei esclusi), ma tutte le immagini, le sensazioni, le
parole, le opinioni sono filtrate dalla sua mente e dal suo bagaglio culturale.
Un uomo che da sempre si interroga e ci interroga sul senso di smarrimento
dell’uomo di fronte ad una società e ad una vita che non lo rispecchiano. Solo
l’uomo e la vita. Semplice ma complesso. Anticonformista o forse solo sincero.
Riguardando i due film dopo aver approfondito la figura dell’artista mi accorgo
di quanto lui quel viaggio a Rimini l’abbia fatto, di quanto le radio libere le
abbia viste nascere, crescere e morire, di quanto abbia sentito la strage di
Bologna e di quanto si distacchi dal mondo del successo che lo sfiora da sempre
ma non lo prende mai. Lui c’era e c’è sempre stato. Sempre dalla parte di chi
non giudica la vita degli atri, dalla parte di chi non si sente appartenere a
nessun gruppo, di chi è stanco dei voti, dei commenti, di chi sposa Ilaria, di
chi non vive di etichette ma non vince quasi mai. Di chi Crede, chi crede che
non sia tutto qua, però, prima di credere in qualcos’altro, bisogna fare i
conti con quello che c’è qua e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche
Dio, ma intanto buona vita soci.
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