venerdì 3 novembre 2017

STRANGER THINGS 2 - SU E GIÙ DALL’UPSIDEDOWN

Chiariamo subito: la prima stagione di Stranger Things non era il capolavoro che il pubblico ha osannato, ma una grande serie capace di sfruttare appieno i suoi punti di forza, seppur non esente da difetti. Il più grande punto di forza della prima stagione era indubbiamente l’effetto nostalgia mischiato ad una buona dose di novità nel panorama delle serie tv. Il merito dell’esordio dei Duffer Brothers è stato invece quello di scrivere una storia caratterizzata da una spiccata coerenza narrativa dall’inizio alla fine. Il fil rouge sono infatti la scomparsa di Will e le indagini che scoprono un mondo fatto di materia oscura nel tentativo di ritrovare il ragazzino. Una trama orizzontale e lineare che ha sempre guidato i personaggi nelle loro azioni organizzate con piccole ricompense lungo il cammino per poi giungere alla ricompensa definitiva del ritrovamento di Will. Nulla è lasciato al caso nella prima stagione e l’effetto imbuto delle varie storyline appare quanto più naturale possibile per via del fatto che tutto in origine era pensato per terminare in un dato punto.


Con quali aspettative ci siamo approcciati alla seconda stagione? Fraintendendo le reali possibilità della prima stagione, abbiamo inconsapevolmente assecondato l’effetto collaterale della nostalgia, ossia quello di fagocitare il resto della costruzione narrativa, richiedendo a gran voce altra nostalgia. Un circolo vizioso destinato ad estinguere prima lo sviluppo di nuove idee, infine la nostalgia stessa. I Duffer, al contrario delle aspettative errate del pubblico, hanno saputo sostenere con compostezza il peso del ritorno ad Hawkins, Indiana, ma appare evidente fin da subito che la seconda stagione non era nelle corde degli sceneggiatori all’epoca dell’ideazione della prima. I creatori della serie non sapevano come Stranger Things sarebbe stata accolta e avevano strutturato la prima stagione come un unicum narrativo compatto e completo. Abbiamo già ampiamente discusso della posticcia presenza delle ultime scene dopo il salvataggio di Will nella prima stagione, sequenze che aprivano le possibilità degli sceneggiatori, piuttosto che indirizzarle sulla falsa riga della linearità della prima stagione.


La seconda stagione rivoluziona la struttura narrativa, passando dall’orizzontalità ad uno schema ad albero i cui intricati rami dispersivi tendono infine a tornare verso una conclusione unitaria. In questo modo, gli sviluppi narrativi che avevamo lasciato in una situazione di quiete si allontanano sempre più durante lo svolgimento della trama, rischiando spesso di perdere il centro focale dell’opera. Si perde così l’unicum che aveva legato tutte le storyline della prima stagione - la scomparsa di Will Byers - per andare in contro ad una costruzione più tipicamente seriale. Qual è l’unicum della seconda stagione? Gli strascichi della permanenza di Will nell’Upsidedown, la ricerca personale di El o ancora lo svelamento della verità sulla morte di Barb?  È probabilmente su questo dubbio che si gioca la più grande differenza tra le due stagione di Stranger Things.


Se da una parte abbiamo dovuto rinunciare alla grande coerenza narrative della prima stagione, dall’altra la struttura tipicamente seriale assunta da Stranger Things ha spalancato le porte ad una riqualificazione dei personaggi, che sono diventati il fulcro attorno al quale la serie ha cominciato a gettare la basi di una continuità più a lungo termine. E proprio questa programmazione porta alcuni personaggi a risaltare più di altri, magari invertendo il trend della prima stagione, grazie alla certezza di uno sviluppo nel tempo. Le new entry sono ad esempio perfette, così come Dustin e Lucas. Calano invece, soprattutto nella prima metà di questa seconda stagione, Mike e Eleven.

Bob Newby, superhero

La posizione di Eleven rispetto agi eventi narrati è un argomento cardine per la valutazione della serie: l’assenza forzata del personaggio interpretato da Millie Bobby Brown è negli interessi della serie, ma in questo modo i Duffer mostrano il fianco ad una trama fiacca e balbettante, che, senza l’attesa del deus ex-machina finale, si sarebbe ridotta ad una miniserie di quattro episodi. Il ritardo di El allunga palesemente il brodo in un calderone di eventi che tendono troppo spesso a complicare pochi momenti significativi, ma al contempo è fondamentale per l’evoluzione della serie, sia in termini televisivi che dal punto di vista della scrittura per le prossime stagioni.



Il bilancio finale parla di una maturazione che evita disfatte clamorose rispetto alla prima stagione e all’attenzione che essa aveva generato; la seconda stagione sceglie volutamente di non riproporre un banale more-of-the-same della prima, ma differenzia abilmente struttura e sviluppo, pur rimanendo ancorata ai capisaldi che avevano fatto grande la prima caccia al demogorgone. Stranger Things 2 è quello che noi fan di “vecchia” data desideravamo e non possiamo che gioire per questo ritorno, perché l’anima della serie è rimasta la stessa. Restano dei difetti, si perde forse la magia della prima stagione, ma tornare ad Hawkins con quei cinque ragazzi è sempre un’emozione fantastica.

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