giovedì 23 marzo 2017

HELL OR HIGH WATER - LA VIOLENZA CHIAMA VIOLENZA

La risposta alla violenza, in un universo governato dall’ordine della dinamica e dal caos, è ancora la violenza. Assume altra forma, si allontana e poi ritorna.

Hell or high water” è un piccolo, marginale spaccato della vita americana che vede nella violenza la molla e la causa di ogni azione. Marcus e Toby, due fratelli molto diversi, ma accomunati dalla medesima necessità di rivalsa, si improvvisano delinquenti per riuscire a sopravvivere in un Texas di fuoco e pignoramenti. L’inizio in medias res ci catapulta con forza all’interno di un quadro arido, già profondamente segnato da un passato violento che chiede un risarcimento. È forse la morte della madre a spingere i due a reagire nella malavita, o forse la violenta uccisione del padre, avvenuta anni prima? Non siamo in grado di stabilirlo, certo è che il mondo in cui i protagonisti della finzione dell’opera esordiscono è già permeato di un profondo velo di violenza reazionaria. Ogni personaggio che appare sulla scena, in perfetto stile texano, si mostra propenso, voglioso, desideroso di esprimere il suo essere nell’annullamento psicologico e soprattutto fisico di chi, vittima di un ideale processo sommario, merita la gogna. E tutto ciò appare perfettamente in linea con il pensiero delle autorità, che nel dialogo devono per legge mostrarsi contrariate, ma che apprezzano con un sorriso lo spirito del taglione della loro popolazione.



Questo coinvolgimento popolare nelle scapestrate scorribande dei due fratelli protagonisti genera un flusso di comuni cittadini assetato di giustizia che si spinge alla caccia dei delinquenti. La violenza che contraddistingue il pensiero di fondo di una società così reazionaria prende forma nella partecipazione che conduce all’escalation finale: un climax di tensione che vede nelle premesse la sua stessa conclusione.
Il finale dell’opera poi è esplicativo di un circolo inarrestabile, che non decelera di fronte alla morte e prosegue la sua marcia virulenta fino allo sterminio di massa. La chiusura degli archi narrativi fondanti non conclude una ricerca del colpevole, alle spalle dell’organizzazione statale. È la giustizia che non vede processo, che non ha immediatamente davanti agli occhi le cause di un gesto compiuto di sfuggita, per caso. I giudici sono anche carnefici e questo ha avvelenato da sempre un paesaggio incolto, deturpato, sepolto sotto la sabbia dell’odio viscerale.


Non si tratta del semplice “Stato di natura”, perché questo Texas lacerato tra giusti e defunti ha un’autorità vigente salda, quella delle armi e della guerra, quella della cieca superiorità del modello corrente rispetto ad un’apertura che è ormai un miraggio nella sterpaglia. Esiste un gioco condiviso in cui vince chi non lascia spazio e rincara la dose, chi diffida, chi tradisce per il bene superiore, chi uccide, anche metaforicamente, anche non metaforicamente. Ciò che il film riproduce nel piccolo è un fenomeno tremendamente attuale e diffuso che minaccia di riportare il globo sull’orlo del Novecento, quel passato da cui non abbiamo imparato e di cui questa violenza mai sopita continua a cibarsi.


La rivoluzione sociale a cui siamo chiamati passa dalla capacità di fare vuoto, di non rispondere nella nostra quotidianità all’offesa con altra offesa, alla violenza con altra violenza, per arginare questo circolo vizioso che da sempre corrode l’essenza umana. La parabola discendente di Marcus e Toby colpisce per la crudeltà con cui un contesto permeato di sete di vendetta avvinghia e punisce deliberatamente chi è mosso dalle circostanze a commettere un errore, che genera altri errori, che termina con la deflagrazione dell'intera società. Quando la vendetta si confonde con la giustizia, questa violenza è la fine dell'essere umano.

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