mercoledì 15 marzo 2017

AMORE TOSSICO E CECITÀ

Prima delle sciagurate vicende di Cesare e Vittorio nel crudo “Non essere cattivo”, c’erano i disagi e lo squallore di Cesare e Michela, protagonisti loro malgrado del delirio reale di “Amore tossico”. Erano gli anni ’80, quelli di ferro, di Regan e della Tatcher, e mentre il resto del mondo era distratto ad ammirare la magnificenza della storia che conta, sul lungomare di Ostia i protagonisti di questo piccolo cult tentavano di “svoltare” la giornata, tra una pera di roba e una dose di metadone.
Amore tossico è lo sguardo imparziale di Caligari sul degrado di una generazione allo sbando, inerme nel mezzo di un capitalismo galoppante e di un pianeta che gira ad una velocità insostenibile. L’unico modo per sfuggire alla morte è rifugiarsi nella morente routine della droga, della prostituzione e della delinquenza. Piccoli furti a favore di fugaci momenti di sopravvivenza e nostalgia, di quando la vita era differente e si poteva fantasticare sul futuro. Quello che manca al gruppo di protagonisti di “Amore tossico” è proprio uno sguardo reale al futuro in grado di conferire lo slancio necessario al superamento del presente. Ciò che appare evidente è l’annebbiamento della vista di chi non riesce a guardare oltre la prossima pera, di chi vive per il dilemma amletico “Coca o ero?”. Un dilemma sporco, lercio, come è lercio il contesto in cui queste anime buie si muovono: angoli delle piazze, discariche, case abbandonate. Luoghi spogliati di gioia e dignità che si fondono all’astinenza nel grigiore di una Roma vera. Non la città eterna, non lo sfarzo di Jep Gambardella, solo la realtà delle piccole cose. Una fredda panchina di marmo al sole, un cumulo di immondizia e siringhe usate, un defibrillatore inutile.


La realtà della costa ostiense è troppo dura per crederla reale, sarebbe più semplice per lo spettatore e per i ragazzi protagonisti rifugiarsi nell’immaginazione, nella spettacolarizzazione di una vita al limite, come è stato in grado di fare Danny Boyle nel suo cult, ma il limite della vita di un tossicodipendente nella Roma degli anni ’80 era il limite inferiore, quello tra la vita e la morte, non quello a contatto con la gloria dell’attimo.



Nella storia di vincitori e vinti restano invisibili gli ultimi, i provinciali, coloro che non hanno un peso e vagano senza una meta, aspettando una fine che non pare il male maggiore. Nella dialettica storica è palpabile la necessità di includere anche coloro che non riescono a rientrare in questo scontro societario, ma lo stato volta le spalle a coloro che perdono di vista la partecipazione, cullati dai fumi dell’alcool e della droga. In tutto il film infatti non compare alcun rappresentante della giustizia, eccezion fatta per il tragico finale, in cui la corsa stentata di Cesare alla metaforica ricerca di una spiraglio viene fermata da un proiettile, sparato dalla pistola di chi sta dalla parte giusta e non sa vedere oltre l’abito moribondo. L’accusa più sentita di Caligari, forse l’unico momento in cui riesce davvero a prendere una posizione sulla condizione del reale. La cecità dilagante del sistema in cui la droga ammutolisce e lo stato si volta è un rumore insopportabile. Non è storia, non è democrazia.

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