martedì 12 luglio 2016

LET ME SING YOUR BLUES AWAY

Ricapitoliamo alcuni eventi importanti degli ultimi giorni, per i più distratti o semplicemente per rinfrescare la memoria:

5 luglio: Alton Sterling, afroamericano, dopo essere stato immobilizzato, viene ucciso dalla polizia di Baton Rouge, in Lousiana.
6 luglio: Philando Castile, afroamericano, viene ucciso dalla polizia mentre tira fuori dalla tasca il portafogli a Saint Paul, in Minnesota; la moglie riprende la scena e pubblica il video su Facebook.
7 luglio: Micha Johnson, afroamericano, uccide cinque agenti di polizia al termine di una manifestazione di protesta.


Senza entrare nel dettaglio di questi episodi, appare chiaro che la situazione negli States è piuttosto tesa. E non è affatto semplice per noi europei comprenderla appieno. Perché per quanto i recenti fatti di cronaca nostrani siano altrettanto preoccupanti, mettono in luce due tipologie di razzismo ben diverse. La comunità afroamericana è da generazioni parte degli U.S.A., rappresenta più del 12% della popolazione e inoltre questi omicidi sono stati compiuti da forze dell’ordine e avvengono in un paese in cui le armi le compri praticamente al supermercato. Forse l’unico punto di contatto tra i due contesti è il rifiuto da parte di una consistente fetta di popolazione, del “politicamente corretto”. Che di per sé sarebbe anche un’idea comprensibile, se fosse portata avanti con cognizione: Ricky Gervais e Vittorio Sgarbi sono politicamente scorretti, Trump e Salvini sono razzisti. C’è una bella differenza.
Ma come dicevo, al di là di queste analogie, i due fenomeni sembrano molto differenti e se già è complicato per un bianco americano addentrarsi nella cultura afroamericana e nelle sue contraddizioni vere e apparenti senza pregiudizi e senza ingenuità, è ancora più difficile per chi non vive nel paese dell’aquila calva.



In nostro soccorso giunge come suo solito la musica, che come spesso accade riflette la realtà più di quanto non facciano immagini e discorsi. Da quando sono accaduti questi episodi c’è stato un proliferare di canzoni sul tema pubblicate da artisti americani e non, afroamericani e non. Quello che colpisce è la qualità sorprendente di queste registrazioni, presumibilmente scritte, arrangiate e prodotte in pochi giorni se non ore. Tutto ciò dimostra quanto grande sia il coinvolgimento emotivo di alcuni artisti, in questo caso più che mai di alcune persone, in queste vicende. Emblematiche sono state le lacrime di commozione versate da Miguel durante un concerto di qualche giorno fa. Il cantante americano era impegnato nel tour di promozione del suo ultimo album, Wildheart – uno dei lavori più interessanti del 2015 nel panorama r&b che non ha ricevuto tutta l’attenzione che meritava, recuperatelo se ve lo siete perso – e ha colto l’occasione per dire la sua in un discorso particolarmente sentito. Discorso che ha poi rimodellato nella forma di canzone in How Many. In realtà la versione che è stata resa pubblica è How Many ruff 1, in quanto il pezzo è ancora una demo e verrà aggiornato ogni settimana man mano che il lavoro procede. Ma già in questa versione “grezza” promette di essere un grande pezzo.


Come era prevedibile è proprio l’ambiente della musica afroamericana, r&b, hip-hop e soul ad essere particolarmente attento alle tematiche legate al razzismo, difatti molti dei pezzi pubblicati arrivano proprio da queste scene. In queste situazioni diventa anche difficile per chi ascolta distinguere tra artisti che scrivono spinti da un sentimento sincero e quelli che cavalcano l’onda mediatica. Gli stessi artisti ne sono ben consci e qualcuno ha tenuto a precisarlo. Tra questi Boogie, rapper della scena di Compton, che ha pubblicato sul suo canale SoundCloud Hypocrite Freestyle, un freestyle appunto, che tra le altre cose campiona una frase della moglie di una delle vittime dei recenti avvenimenti. In perfetta coerenza con il modo di porsi degli artisti hip-hop, spesso controverso, il testo è decisamente più duro e si schiera senza tanti giri di parole, attaccando quella parte della polizia responsabile delle azioni violente ma anche la parte che rimane in silenzio di fronte ad esse. Canzoni come questa sono un’ulteriore dimostrazione di quanto sia complesso avere una visione d’insieme di questi fenomeni e contesti (fino ad ora l’analisi più interessante ed esaustiva che ho trovato è quella fatta da David Foster Wallace e Mark Costello in Signifying Rappers, Il rap spiegato ai bianchi nella traduzione italiana, che è uno dei più bei libri di musica che io abbia letto).


Ad avere un’idea il più possibile imparziale sono stati i My Morning Jacket. Anche loro utilizzando SoundCloud hanno sorpreso il pubblico condividendo una traccia inedita, Magic Bullet. Il pezzo musicalmente non ha davvero nulla a che vedere con i loro ultimi lavori in studio ma è molto orecchiabile nel suo incedere monotono ma non per questo non coinvolgente. Il cuore della canzone è il testo, ben scritto, che riesce ad esprimere concetti dati troppo spesso per scontati senza scadere nella retorica e conservando quel tocco di poesia capace di renderlo memorabile.


Non sono stati ovviamente questi gli unici esempi di artisti e che hanno voluto dire la loro con gli strumenti (letteralmente) a loro disposizione: anche personaggi decisamente più celebri come Ariana Grande e Jay-Z si sono espressi tramite canzoni o playlist create ad hoc. Quello che traspare da canzoni come queste o da lavori più complessi pubblicati negli ultimi tempi come To Pimp A Butterfly non è tanto la volontà di fare politica tramite la propria arte, nessuno di questi artisti si illude che la musica possa avere un ruolo attivo nel cambiamento, ma è il tentativo di raccontare le realtà, le persone e le emozioni, facendole arrivare il più lontano possibile. E la musica è senza dubbio il modo migliore.


Marsha Bronson  



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