domenica 29 maggio 2016

UNA GIORNATA AL MI AMI FESTIVAL

Momento spiegone per gli sprovveduti: il MI AMI Festival è un festival di musica indipendente italiana che si svolge ogni anno all’idroscalo di Milano, nel circolo Magnolia. L’evento si compone di due/tre serate e coinvolge migliaia di giovani post fricchettoni italici che si accalcano sotto i palchi dalle prime calde ore pomeridiane o si accampano con gli zainetti sotto gli alberi del parco. Un po’ primo maggio, ma un po’ meglio.
Quest’anno, vista la mia posizione di rilievo ottenuta grazie all’enorme fama derivata dal blog, mi sono sentito in dovere di prendere parte all’evento all’insegna del motto del momento: “Lo faccio per voi”. In realtà mi sono appassionato alla scena indie romana negli ultimi tempi e, vista la line up di venerdì, mancare sarebbe stato un colpo all’anima, e un colpo al cerchio, ed un colpo all’anima, all’anima. Ho comprato il mio bel biglietto economico su Bigliettuno (per non fare prodotto piazzamento), ho riempito il mio nuovo zainetto hipsterissimo, un paio di chiamate, quelle giuste, e mi sono recato nella spagnola Milano, che il giorno dopo avrebbe ospitato la finale di Champions. Se però non sei di Milano e hai una macchina che consideri ancora nuova - e rossa, e fiammante - e non puoi lasciarla nel parcheggio incustodito della stazione, essere in città per le 16 vuol dire svegliarsi alle 6:50 per farsi accompagnare da qualche anima pia, o sveglia almeno.


Raggiungo gli amici di Poliradio (che saluto - ciao, amici di Poliradio) e andiamo a prendere la navetta, che è piena, quindi optiamo per il 90 in accoppiata con 73. Ricordate bene questi numeri, che io non li ricorderò al momento oppurtuno. Arrivati al Magnolia mi fermano quelli della Rizla per chiedermi se fumo. Gli dico di no. Uno della radio fuma e gli regalano le cartine. Dopo trenta metri mi fermano altri ragazzi della Rizla per chiedermi se fumo. Gli dico di no. Quello della radio fuma e gli regalano una maglietta. Dovrei cominciare a fumare.
Prima tappa Rizla stage, dove la musica è già cominciata da quasi un’ora. Ci sediamo su un telone sul prato e sento l’odore della libertà. Spazi aperti, idroscali, poca gente che fa il tifo. Magari fosse così l’intero evento, ma il peggio deve ancora venire. Ci spostiamo poi verso il palco principale in attesa che si cominci a fare su serio. Prima dei coinvolgenti Novamerica, poi Motta, che entra sul palco mezzo sudato, svogliato, con la sigaretta in bocca che butta a terra pochi secondi prima di cominciare a cantare. Non gli si darebbero due lire, e invece comincia a saltare, a girare per il palco, a coinvolgere e a cantare così bene che a confronto l’album sembra registrato in Piazza San Giovanni, con i fonici che accendono i pirulini di Piazza San Giovanni. Entusiasmante e totale, quello che si definirebbe un animale da palcoscenico. Aizza la folla, fa cantare e riempie gli spazi lasciati vuoti da un pubblico che avrà trovato traffico per la strada. Ora si fa dura per chi arriva dopo. Intanto mi accorgo della presenza degli Street Clerks dietro di me, così.
Finito il live di Motta andiamo a fare un giro, passiamo tra i banchetti (indie anche loro) che riempiono la zona di congiunzione tra i vari palchi, doppi palchi e contropalchetti. Vendono album indipendenti, magliette, collane, camice molto larghe e con trame molto di sinistra, cinture, copricapi. Insomma puoi rifarti completamente il guardaroba per assomigliare ai tuoi idoli indipendenti, ma indipendenti da chi? E mentre cerco di capire l’utilità delle cose che mi circondano, vedo gli OSC2X che vendono magliette, così.


Torniamo poi al palco principale per ascoltare Cosmo; sembra che la zona stia cominciando a riempirsi, ma troviamo posto sul pezzo di plastica che copre i cavi (non riesco a trovargli un nome migliore), per cui siamo i più alti del festival. Scusate, sono i più alti del festival, io ora sono nella media. Cosmo sale sul palco, non dice niente, canta, ma non mi dice niente. Però in compenso ci passa a fianco Matteo dei ThePills, così. Lo fermiamo, lo salutiamo e ci facciamo i selfie di rito.
Io e un ragazzo che chiameremo Marsha, per preservalo dalle storie che verranno poi, stanchi di Cosmo, cambiamo palco per andare a sentire la buffonata di Tommaso “Thegiornalisti” Paradiso che performa Bollicine di Vasco. Sale sul palco, si siede alla pianola e comincia Promiscuità. La folla si esalta. Canta tre parole, si ferma e torna dietro le quinte. Era un soundcheck. Rientra dopo poco e comincia a cantare Bollicine, e Vasco non ci piace, ma cantiamo a squarciagola. Poi ringrazia il pubblico per sostenerlo in questa buffonata e noi ridiamo. Canta altre tre canzoni di Vasco, tra cui “Voglio una vita spericolata”, che gridiamo al cielo, e poi apre un dibattito col pubblico, che vuole insistentemente i brani dei Thegiornalisti. Accontentato, ma dopo appena una strada e le stelle io e Marsha dobbiamo spostarci, cominciano I Cani sul palco principale.


Da qui non mi assumo più alcuna responsabilità. Arrivati vicini al palco, Marsha si allontana per prender una birra. “Lì c’è il bassista. Ok, so dove siamo. Torno subito”; l’ho rivisto un’ora e mezza dopo. Intanto I Cani: Niccolò entra in scena, sbaglia le parole della prima strofa di “Questo nostro grande amore”, i fonici si perdono ogni tanto, ma è solo il principio di escalation di una performance fantastica. Canta tutto, adatta le canzoni al contesto e intanto noi saltiamo e ci colpiamo con violente gomitate sulle gengive. Intanto infatti la platea si era rimpinguata per quello che doveva essere, ed è stato, l’artista principale della serata. Ogni salto di un tipo corpulento equivale ad una caduta collettiva qualche metro dopo. E dopo ore uscimmo a riveder le stelle, ma queste sono solo Velleità e momenti di così alto coinvolgimento non sempre si vivono.
Ragiono d’anticipo e lascio Contessa prima che possa dire Finirà per prendere dei posti discreti per Calcutta sul Rizla stage, ma non avevo considerato Marsha. Cominciamo una serie di chiamate reciproche senza risposta per problemi di linea. Riusciamo a sentirci solo dopo venti minuti, ma siamo ancora in tempo per Calcutta. Gli mando un messaggio che riporto in toto: “Sono sulla panchina dietro Elvis che sposa la gente. Vieni qui please”. Perché dovete sapere che all’ingresso ci si poteva sposare con chiunque, e ad officiare la cerimonia c’era un simpatico sosia di Elvis che diceva qualcosa tipo:

“Nella buona e nella cattiva sorte;
Finche morte non ci separi;
Quando vinceremo i soldi della lotteria;
E quando i soldi della lotteria saranno finiti;
Per il potere conferitomi dalla città di Las Vegas, Nevada
Io vi dichiaro moglie e moglie”

Riesco quindi a ricongiungermi a Marsha, che però, dopo avermi perso, ha deciso di cambiare palco e di andare a sentire i Gazebo Penguins. Nella confusione ha perso però le chiavi di casa, che sono state trovate dai Gazebo e sono state lasciate al loro stand. Ci mettiamo quindi alla disperata ricerca del loro stand, ma giriamo e rigiriamo invano. Intanto il Rizla stage si sta riempiendo. Alla fine troviamo un banchetto di legno con due album sopra.
“Ciao, ho perso le chiavi e i Gazebo hanno detto che le hanno portate qui”
“Si, le avevano portate qui, ma un ragazzo è venuto a reclamarle”
“Noooo, erano le mie chiavi, avevano un portachiavi rosso”
“Eh si”
“Nooooo, erano le mie chiavi, avevano anche un portachiavi a forma di granchio”
“No, ma il portachiavi rosso era dei transformers?”
“No. E allora non solo le mie chiavi”
Morale della favola: le chiavi le abbiamo perse, lo stand dei Gazebo lo abbiamo trovato, ma le chiavi non le abbiamo recuperate. In compenso però siamo arrivati da Carcù che il Frosinone ormai era in serie B. E ci siamo adattati in un posticino di sbieco, a cantare tra la gente barcollante e anche un po’ stonata, anche più di me, che non sono Freddy Mercury.


Calcutta riunisce i popoli e commuove, dal vivo anche più che su Radio Bruno alle 23:15. E ci divertiamo a guardare il cielo, che tanto il palco comunque non lo vediamo.

Finito quest’artista Mainstream torniamo al palco principale, ma ormai il più è fatto. Ad una certa ora ci riavviamo verso l’autobus. Prendiamo il 73 e poi… e poi… no, solo il 73. Arriviamo a San Babila, capolinea. La metro chiusa, ce la facciamo a piedi, alle tre di notte. Ma Milano è viva, non un ospedale, e incontriamo anche gente che si conosce. Ma siamo comunque felici, perché abbiamo fatto quello che c’era da fare: abbiamo saltato, cantato, ci siamo emozionati e, anche se non ci siamo sposati e di Calcutta ho visto solo il cappellino da disagiato, va bene così. È andata bene così.

Ma il festival dura due giorni. Clicca QUI per il racconto della seconda giornata.

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