domenica 8 aprile 2018

MOTTA - VIVERE O MORIRE È UN MEZZO FALLIMENTO


Dopo la vittoria della targa Tenco per il miglior album d’esordio con La fine dei vent’anni, Motta era chiamato ad una conferma, all’esaltazione delle grandi capacità che aveva dimostrato prima nei Criminal Jokers e poi nel suo lavoro da solista: freschezza generazionale, personalità, energia.


Avendolo visto più volte dal vivo, posso dire con certezza che il cuore del Motta artista sia proprio nella dimensione del palcoscenico, dove la rabbia e la passione sfrenata animano un’esibizione travolgente. L’autore pisano aveva potuto sfogare la sua vena artistica anche grazie al mezzo del primo album, che si prestava alla perfezione ad una certa interpretazione del live. Una volta sul palco, Motta era La fine dei vent’anni e La fine dei vent’anni era Motta, in un perfetto connubio di creatura e creatore, che aveva forse realizzato il suo vestito migliore. Ma un lavoro come quello d’esordio nasce da una congiunzione astrale che collega l’esperienza di vita dell’autore, il momento storico della nostra meglio gioventù e una produzione illuminata, Riccardo Sinigallia. 


A discapito delle premesse generate dai due singoli rilasciati in anticipo rispetto all’uscita dell’album (“Ed è un po’ come essere felice” e “La nostra ultima canzone”) e in controtendenza rispetto al percorso artistico intrapreso da Motta, Vivere o Morire si presenta al pubblico come un significativo passo indietro dell’autore e della ricercatezza di un certo sottogenere musicale, il cantautorato indie. Alla carica emotiva, alla scrittura a tratti ardita, ad un sound casalingo ma nuovo subentrano elementi piatti, comuni e ripetuti che tradiscono due anni di attesa e di lavoro. L’amore sopra ogni cosa riempie testi non sempre ispirati e copre una componente musicale che meritava altri trattamenti. L’esperimento di un nuovo cantautorato italiano diventa troppo presto la copia di decine di altri artisti venuti prima e qualcosa che avevamo creduto esistere già scema improvvisamente per tornare indietro di alcuni anni.


Ma ciò che manca davvero in Vivere o Morire - e che più mi rattrista per il prossimo tour di Motta - è l’energia primitiva che l’autore aveva saputo infondere nel primo album e che aveva portato avanti serate che potevano fondarsi su pochi brani. Era una voglia di rivalsa sociale, per certi versi anche politica, che ritraeva un rimorso collettivo e un dispiacere; ma che ora si nasconde dietro un dialogo troppo soggettivo, troppo parlato tra un lui e una lei di finzione. Non basta qualche passaggio accettabile a salvare un lavoro nato male nella sua intenzione - certamente artistica e condivisibile - di non spingere sulla forza dell’autore. Non c’è mordente, né sperimentazione sonora. Per cercare di raccontare in maniera più approfondita il cuore, Motta ha dimenticato il suo cuore di artista.

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