Dopo la vittoria della targa Tenco per il miglior album d’esordio
con La fine dei vent’anni, Motta era
chiamato ad una conferma, all’esaltazione delle grandi capacità che aveva
dimostrato prima nei Criminal Jokers e poi nel suo lavoro da solista:
freschezza generazionale, personalità, energia.
Avendolo visto più volte dal vivo, posso dire con certezza
che il cuore del Motta artista sia proprio nella dimensione del palcoscenico,
dove la rabbia e la passione sfrenata animano un’esibizione travolgente. L’autore
pisano aveva potuto sfogare la sua vena artistica anche grazie al mezzo del
primo album, che si prestava alla perfezione ad una certa interpretazione del
live. Una volta sul palco, Motta era La fine
dei vent’anni e La fine dei vent’anni
era Motta, in un perfetto connubio di creatura e creatore, che aveva forse
realizzato il suo vestito migliore. Ma un lavoro come quello d’esordio nasce da
una congiunzione astrale che collega l’esperienza di vita dell’autore, il
momento storico della nostra meglio gioventù e una produzione illuminata,
Riccardo Sinigallia.
A discapito delle premesse generate dai due singoli
rilasciati in anticipo rispetto all’uscita dell’album (“Ed è un po’ come essere
felice” e “La nostra ultima canzone”) e in controtendenza rispetto al percorso artistico
intrapreso da Motta, Vivere o Morire
si presenta al pubblico come un significativo passo indietro dell’autore e
della ricercatezza di un certo sottogenere musicale, il cantautorato indie. Alla carica emotiva, alla
scrittura a tratti ardita, ad un sound casalingo ma nuovo subentrano elementi
piatti, comuni e ripetuti che tradiscono due anni di attesa e di lavoro. L’amore
sopra ogni cosa riempie testi non sempre ispirati e copre una componente
musicale che meritava altri trattamenti. L’esperimento di un nuovo cantautorato
italiano diventa troppo presto la copia di decine di altri artisti venuti prima
e qualcosa che avevamo creduto esistere già scema improvvisamente per tornare
indietro di alcuni anni.
Ma ciò che manca davvero in Vivere o Morire - e che più mi
rattrista per il prossimo tour di Motta - è l’energia primitiva che l’autore
aveva saputo infondere nel primo album e che aveva portato avanti serate che
potevano fondarsi su pochi brani. Era una voglia di rivalsa sociale, per certi
versi anche politica, che ritraeva un rimorso collettivo e un dispiacere; ma
che ora si nasconde dietro un dialogo troppo soggettivo, troppo parlato tra un
lui e una lei di finzione. Non basta qualche passaggio accettabile a salvare un
lavoro nato male nella sua intenzione - certamente artistica e condivisibile -
di non spingere sulla forza dell’autore. Non c’è mordente, né sperimentazione
sonora. Per cercare di raccontare in maniera più approfondita il cuore, Motta
ha dimenticato il suo cuore di artista.
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