Prima delle sciagurate vicende di Cesare e Vittorio nel
crudo “Non essere cattivo”, c’erano i disagi e lo squallore di Cesare e
Michela, protagonisti loro malgrado del delirio reale di “Amore tossico”. Erano
gli anni ’80, quelli di ferro, di Regan e della Tatcher, e mentre il resto del
mondo era distratto ad ammirare la magnificenza della storia che conta, sul
lungomare di Ostia i protagonisti di questo piccolo cult tentavano di “svoltare”
la giornata, tra una pera di roba e una dose di metadone.
Amore tossico è lo sguardo imparziale di Caligari sul
degrado di una generazione allo sbando, inerme nel mezzo di un capitalismo
galoppante e di un pianeta che gira ad una velocità insostenibile. L’unico modo
per sfuggire alla morte è rifugiarsi nella morente routine della droga, della
prostituzione e della delinquenza. Piccoli furti a favore di fugaci momenti di sopravvivenza
e nostalgia, di quando la vita era differente e si poteva fantasticare sul
futuro. Quello che manca al gruppo di protagonisti di “Amore tossico” è proprio
uno sguardo reale al futuro in grado di conferire lo slancio necessario al
superamento del presente. Ciò che appare evidente è l’annebbiamento della vista
di chi non riesce a guardare oltre la prossima pera, di chi vive per il dilemma
amletico “Coca o ero?”. Un dilemma sporco, lercio, come è lercio il contesto in
cui queste anime buie si muovono: angoli delle piazze, discariche, case
abbandonate. Luoghi spogliati di gioia e dignità che si fondono all’astinenza
nel grigiore di una Roma vera. Non la città eterna, non lo sfarzo di Jep
Gambardella, solo la realtà delle piccole cose. Una fredda panchina di marmo al
sole, un cumulo di immondizia e siringhe usate, un defibrillatore inutile.
La realtà della costa ostiense è troppo dura per crederla
reale, sarebbe più semplice per lo spettatore e per i ragazzi protagonisti
rifugiarsi nell’immaginazione, nella spettacolarizzazione di una vita al
limite, come è stato in grado di fare Danny Boyle nel suo cult, ma il limite
della vita di un tossicodipendente nella Roma degli anni ’80 era il limite
inferiore, quello tra la vita e la morte, non quello a contatto con la gloria
dell’attimo.
Nella storia di vincitori e vinti restano invisibili gli
ultimi, i provinciali, coloro che non hanno un peso e vagano senza una meta,
aspettando una fine che non pare il male maggiore. Nella dialettica storica è
palpabile la necessità di includere anche coloro che non riescono a rientrare
in questo scontro societario, ma lo stato volta le spalle a coloro che perdono
di vista la partecipazione, cullati dai fumi dell’alcool e della droga. In
tutto il film infatti non compare alcun rappresentante della giustizia, eccezion
fatta per il tragico finale, in cui la corsa stentata di Cesare alla metaforica
ricerca di una spiraglio viene fermata da un proiettile, sparato dalla pistola
di chi sta dalla parte giusta e non sa vedere oltre l’abito moribondo. L’accusa
più sentita di Caligari, forse l’unico momento in cui riesce davvero a prendere
una posizione sulla condizione del reale. La cecità dilagante del sistema in
cui la droga ammutolisce e lo stato si volta è un rumore insopportabile. Non è
storia, non è democrazia.
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