venerdì 3 marzo 2017

MA QUALCUNO L’HA VISTO MOONLIGHT?

Siparietto divertente, miglior film a Moonlight e tutti contenti. Sul web si è sviluppata in brevissimo tempo un aspro astio contro La La Land di Chazelle, in molti lo hanno criticato solo dopo la cerimonia degli oscar e le modalità dell’assegnazione del premio non hanno certamente aiutato l’immagine del musical. Ma i detrattori più accaniti dell’opera magna dedicata ai sognatori hanno davvero visto Moonlight, vincitore a sorpresa?


Moonlight è un buon film, questo non può essere messo in dubbio, ma, nel genere in cui si colloca e cerca di trovare una posizione innovativa, si confonde nella marea di cloni strappalacrime che raccontano una storia difficile con un tatto particolare. All’opera di Barry Jenkins vanno riconosciuti alcuni meriti, come la realizzazione eccellente della ghettizzazione nera, o l’attenzione ai particolari nello sviluppo delle tre fasi della vita di Piccolo; ma, allo stesso tempo, non mancano debolezze che impediscono all’opera di stagliarsi al di sopra degli altri film di questo 2017. Moonlight si caratterizza per un ritmo che cerca di mimare il reale - grazie anche ad alcune scelte registiche azzeccate - ma spesso questo realismo, sfruttato all’interno di un contesto non innovativo, si traduce in un senso di già visto, e le sequenze, talvolta tirate troppo per le lunghe, lasciano intuire allo spettatore lo svolgimento dell’azione molto prima che questa si realizzi - fatta eccezione per la scena della sedia -. Detto in altro modo, Moonlight soffre di un problema di ritmo, che nasce dalla volontà dichiarate di perseguire un insistito e toccante realismo del ghetto.
A tenere in piedi la pellicola per la prima mezz’ora ci pensa Mahershala Ali, il Cotton Mouth fresco di Oscar. La presenza scenica dell’attore afroamericano è imponente e riesce a calamitare lo sguardo dello spettatore semplicemente attraverso un paio di risate e il tic del labbro secco. Con il passaggio all’età adolescenziale e quindi con l’allontanamento del personaggio di Blue il film comincia a rallentare pericolosamente, perdendo di mordente e reggendosi fondamentalmente su poche scene decisamente riuscite, come la prima esperienza omosessuale del protagonista o la sequenza di presentazione di Black. Pochi momenti di buon livello tenuti assieme da un collante diluito senza misura dell’attenzione in sala.
Ciò che purtroppo manca a Moonlight è un sostrato che approfondisca la lineare storia di fondo e possa in qualche modo generare un senso di attesa per un finale troppo prevedibile. La pellicola è quello che appare, legata indissolubilmente al razzismo di cui non fa mistero, all’omofobia che regna sovrana fin dalla prime battute. È tutto sullo schermo: le emozioni del protagonista, la relazione con la madre, l’assenza del padre. Una maniera di scrivere il cinema che non vuole andare oltre ciò che si vede o si sente. Una maniera di fare cinema che poco aggiunge al dibattito contemporaneo e alla storia di quest’arte.


Manca inoltre quel tono ampio che lascia la sensazione di aver visto e vissuto un’esperienza significativa, unica, ma qualcosa riesce a sfuggire alla banalità del reale, nell’ultima inquadratura. Quando il bambino in riva al mare guarda cosa è diventato, e in se stesso vede la strada tortuosa che ha dovuto percorrere, ci si rende conto di aver assistito ad una vita degna di essere raccontata e qualcosa del film riassume una parvenza di superiorità, pur rimanendo al di sotto delle aspettative.

Moonlight resta un film interessante, ben girato, dotato di una fotografia perfettamente calata nel contesto sporco e malfamato del ghetto nero, ma che non riesce a distinguersi abbastanza da essere considerato un capolavoro, da portare con noi nel tempo. Resterà l’esperienza di una visione o poco più. La La Land resterà per molto tempo.

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