Siparietto divertente, miglior film a Moonlight e tutti
contenti. Sul web si è sviluppata in brevissimo tempo un aspro astio contro La
La Land di Chazelle, in molti lo hanno criticato solo dopo la cerimonia degli
oscar e le modalità dell’assegnazione del premio non hanno certamente aiutato l’immagine
del musical. Ma i detrattori più accaniti dell’opera magna dedicata ai
sognatori hanno davvero visto Moonlight, vincitore a sorpresa?
Moonlight è un buon film, questo non può essere messo in
dubbio, ma, nel genere in cui si colloca e cerca di trovare una posizione
innovativa, si confonde nella marea di cloni strappalacrime che raccontano una storia
difficile con un tatto particolare. All’opera di Barry Jenkins vanno
riconosciuti alcuni meriti, come la realizzazione eccellente della
ghettizzazione nera, o l’attenzione ai particolari nello sviluppo delle tre
fasi della vita di Piccolo; ma, allo stesso tempo, non mancano debolezze che
impediscono all’opera di stagliarsi al di sopra degli altri film di questo
2017. Moonlight si caratterizza per un ritmo che cerca di mimare il reale -
grazie anche ad alcune scelte registiche azzeccate - ma spesso questo realismo,
sfruttato all’interno di un contesto non innovativo, si traduce in un senso di
già visto, e le sequenze, talvolta tirate troppo per le lunghe, lasciano
intuire allo spettatore lo svolgimento dell’azione molto prima che questa si
realizzi - fatta eccezione per la scena della sedia -. Detto in altro modo,
Moonlight soffre di un problema di ritmo, che nasce dalla volontà dichiarate di
perseguire un insistito e toccante realismo del ghetto.
A tenere in piedi la pellicola per la prima mezz’ora ci
pensa Mahershala Ali, il Cotton Mouth fresco di Oscar. La presenza scenica dell’attore
afroamericano è imponente e riesce a calamitare lo sguardo dello spettatore
semplicemente attraverso un paio di risate e il tic del labbro secco. Con il
passaggio all’età adolescenziale e quindi con l’allontanamento del personaggio
di Blue il film comincia a rallentare pericolosamente, perdendo di mordente e
reggendosi fondamentalmente su poche scene decisamente riuscite, come la prima
esperienza omosessuale del protagonista o la sequenza di presentazione di
Black. Pochi momenti di buon livello tenuti assieme da un collante diluito
senza misura dell’attenzione in sala.
Ciò che purtroppo manca a Moonlight è un sostrato che
approfondisca la lineare storia di fondo e possa in qualche modo generare un
senso di attesa per un finale troppo prevedibile. La pellicola è quello che
appare, legata indissolubilmente al razzismo di cui non fa mistero, all’omofobia
che regna sovrana fin dalla prime battute. È tutto sullo schermo: le emozioni
del protagonista, la relazione con la madre, l’assenza del padre. Una maniera
di scrivere il cinema che non vuole andare oltre ciò che si vede o si sente. Una
maniera di fare cinema che poco aggiunge al dibattito contemporaneo e alla
storia di quest’arte.
Manca inoltre quel tono ampio che lascia la sensazione di
aver visto e vissuto un’esperienza significativa, unica, ma qualcosa riesce a
sfuggire alla banalità del reale, nell’ultima inquadratura. Quando il bambino
in riva al mare guarda cosa è diventato, e in se stesso vede la strada tortuosa
che ha dovuto percorrere, ci si rende conto di aver assistito ad una vita
degna di essere raccontata e qualcosa del film riassume una parvenza di
superiorità, pur rimanendo al di sotto delle aspettative.
Moonlight resta un film interessante, ben girato, dotato
di una fotografia perfettamente calata nel contesto sporco e malfamato del
ghetto nero, ma che non riesce a distinguersi abbastanza da essere considerato
un capolavoro, da portare con noi nel tempo. Resterà l’esperienza di una
visione o poco più. La La Land resterà per molto tempo.
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