Dal trailer avrei giurato si sarebbe trattato della copia
spudorata di "Shutter Island" di Martin Scorsese, ma per sfortuna mi sbagliavo.
Il nuovo thriller psicologico del “regista visionario” Gore Verbinski
prometteva di elevare l’esperienza del capolavoro con Leo DiCaprio,
arricchendola con un’ambientazione più claustrofobica e una trama maggiormente
vicina al genere horror. Così purtroppo non è stato e “La cura del benessere”
non ha saputo mantenere le premesse, dilapidando un concentrato notevole di
tensione attraverso una sceneggiatura a tratti imbarazzante, che conduce
l’opera ad un finale eccessivamente trash e insensato. Ma andiamo con ordine.
Il film comincia con la morte di un pezzo grosso
dell’istituto finanziario per cui lavora il protagonista. Il colpo d’occhio
iniziale è notevole, getta lo spettatore in un contesto in cui valgono logiche
per certi versi inumane. Si percepisce fin da subito lo squilibrio e la
disumanizzazione che permeano il contesto modello del mondo occidentale, e la
critica di costume si irrobustisce in pochi attimi. Il film fonda
sostanzialmente la sua prima metà su questa idea di “Cura dal benessere”,
ovvero dalle logiche di dominio di una società finanziaria e burocratizzata. La
società per cui lavora il protagonista è in procinto di fondersi ad un altro
istituto, ma è necessaria la firma dell’amministratore delegato, che ha fatto
perdere notizie di sé rifugiandosi in una casa di cura in Svizzera. Lockhart,
giovane fulcro della storia, quindi, per ripagare ad un errore commesso in
malafede, viene scelto al posto del collega defunto per andare in Svizzera a
recuperare l’amministratore delegato.
Il colpo d’occhio iniziale è suggestivo, un luogo
elitario chiuso all’intero di un castello al quale è legata una leggenda
misteriosa. Il protagonista arriva nel luogo previsto, ma la richiesta di
incontrare il suo superiore gli viene prima respinta, poi rimandata. Sulla
strada del ritorno, Lockhart è vittima di un incidente stradale e si risveglia
tre giorni dopo all’interno della clinica con una gamba ingessata. Parte da qui
il processo che lo porterà a diventare un paziente della casa di cura e gli
farà dubitare della sua stessa psiche. Cose strane accadono nella città di Altrove silenziosa Svizzera e starà al protagonista venire a capo di un
mistero che fonda le sue radici nella tragica fine della famiglia che possedeva
la struttura secoli prima.
Film di questo genere, che sviluppano una narrazione
attraverso un sistema di scatole cinesi per cui all’interno di un mistero si
trova sempre un altro mistero, possono essere sviluppati in due modi:
provocando volontariamente un escalation di tensione data dalla costante
risoluzione di alcuni misteri, che vengono celermente sostituiti da altri più
profondi, o attuare l’effetto puzzle, il quel prevede che allo spettatore,
identificatosi con l’unico protagonista, vengano svelati uno dopo l’altro
solamente degli indizi, dei frammenti del quadro generale, per poi fornire una
soluzione soddisfacente al termine dell’opera. "Autopsy", thriller-horror da poco
uscito nelle sale appartiene al primo genere, mentre il succitato "Shutter
Island" è l’esempio più nitido della filmografia contemporanea che si fonda
sull’effetto puzzle. Basti pensare ai flash riguardanti Michelle Williams,
moglie omicida del povero Leo. Tutto assume un senso compiuto alla luce del
finale, purché i pezzi del puzzle siano sempre retti da una logica di fondo
solida, solitamente vicina alla logica reale.
Nel caso de “La cura dal benessere” la risoluzione dei
misteri forniti durante due ore di visione arriva a venti minuti dalla fine del
film. Il restante tempo è quindi occupato dalla perdita totale di ogni sorta di
stile narrativo, il ché porta la pellicola a naufragare tristemente verso un
cinema di serie C. Addirittura viene meno la componente psicologica dell’opera,
quando Lockhart, e con lui lo spettatore, realizza il collegamento tra le
parti, lo scontro tra i personaggi, dapprima verbale, sfocia senza regole sul
piano fisico. Un finale confuso che non risolve alcuni dilemmi dell’opera e
ritrova nel fantastico la giustificazione per una trama quindi frammentaria,
non più degna di un film di livello.
La logica che regge le prime due ore del film, e che
quindi dovrebbe tenere in piedi plausibilmente la scoperta delle varie parti
del quadro, subisce poi una brusca virata ne momento in cui Lockhart, conscio
della situazione, irrompe nella sala da pranzo e cerca di convincere gli
anziani della bontà delle sue argomentazioni. La reazione dei pazienti spezza
la credibilità di un contesto al limite tra il thriller e il fantastico. E si
manifestano davanti agli occhi degli spettatori tutti i momenti del film che
cozzano con la soluzione finale e che abbassano vertiginosamente gli esiti di
un prodotto nato con grandi premesse, forti speranze. Alcuni comportamenti
reiterati smettono di avere senso per lasciare posto ad enormi buchi di trama e
anche la componente sociale, molto forte all’inizio dell’opera, viene
trascinata verso il basso in questa dabacle totale.
Anche l’aspetto tecnico della pellicola, che inizialmente
si stanziava ben al di sopra della media per questo genere di film, risente del crollo
verticale della narrazione e Gore Verbinski smette gradualmente di ricercare
una "cura" particolare per la costruzione delle sue immagini. La messa in scena,
forse vero cuore vivo dell’opera, riesce invece a mantenersi su livelli
altissimi per l’intera durata del film, dimostrando ancora una volta le ottime
capacità di un autore spesso bistrattato per qualche colpo a vuoto. L’abilità
di cineasta di Verbinski riesce quindi a lasciare all’opera un’aura di
rispettabilità, seppur la qualità cali a lungo andare, nonostante risulti difficile prendere sul serio l’intera
vicenda descritta alla luce del finale. Per questo motivo è doloroso bocciare un
tentativo del genere di rimescolare i canoni per produrre innovazione, e ancora
più complesso riuscire ad estrapolare gli elementi salvabili dalla completa
disfatta finale. E ciò rende ancor più triste la visione di un castello che s’innalza
mentre le fondamenta crollano.
“Ecco, già mi vedo
l’epigrafe tombale:
Qui giace un
astronomo, poeta niente male,
Filosofo,
musicista, cavaliere ardente,
Che insomma fu un
po’ tutto, e non fu niente”