All’alba dell’esordio italiano della seconda stagione di
Wayword Pines, visto il successo della serie di commenti ospitata la scorsa
estate su questo blog, ho deciso di ricalcare l’articolo dedicato all’eventualità
di un seguito di Strager Things per fare il punto della situazione sulla serie
prodotta e diretta da M. Night Shyamalan.
Come scrivevo anche un anno fa di questi tempi, è
emblematico come il capitolo conclusivo di una serie potenzialmente
interessante si sia rivelato essere probabilmente l’atto peggiore dell’intera
opera: sconclusionato, anacronistico e soprattutto chiuso a qualsivoglia
seguito improntato sulla stessa linea narrativa. Mi spiego meglio: ciò che mi
aveva colpito dei primi passabili episodi di Waward Pines era stato il mistero,
l’aura di non detto che aleggiava sulla sperduta città mascherata, la volontà,
incarnata nel protagonista Ethan Burke, di trovare un senso alle anomalie, alle
stranezze e ai sotterfugi celati dietro i volti felici. C’era inizialmente una
quantità consistente di elementi oscuri che avrebbero potuto portare la serie a
caratterizzarsi in qualsiasi forma e che inizialmente era stata incanalata in
una struttura solida, rodata in anni di serial mistery e produzioni televisive
simili, sapientemente citate con gusto dal cinefilo produttore.
I problemi della prima stagione sono però diversi, e tra
questi spicca la mancata valorizzazione delle risorse derivate dall’opera
cartacea a cui la serie si ispira. Ogni scelta di sceneggiatura lasciava con l’amaro
in bocca, con la sensazione che le cose sarebbero potute andare in una maniera
differente, più alta, più ricercata e meno scadente. A tratti abbiamo visto un
cinema di serie C atteggiarsi a grande produzione per meriti di contorno che
non riempivano le falle lasciate da una scellerata evoluzione della situazione.
Errori prima passabili, poi pesati e infine compromettenti, che hanno reso il finale
della prima stagione un tripudio di bassezze improponibili. Nel finale infatti
muore il mistero, e con esso il futuro.
Immagino sempre le serie mistery come due vasi
comunicanti. Nel primo, quello di sinistra, sono inseriti i misteri, le zone
oscure, i personaggi e le loro relazioni; una somma dell'incipit e delle introduzioni ad opera in corso, insomma. Il collegamento tra i due recipienti
è lo svolgimento narrativo. In questo modo, nel secondo vaso confluisce la
sostanza del primo, ricombinata dalla trama, che si fa atto. In Wayward Pines,
a differenza di nomi illustri della televisione quali Lost, Twin Peaks e
X-Files, non è stata considerata affatto questa metafora dei vasi comunicati e,
partendo da una situazione in cui il vaso di sinistra traboccava di elementi d’interesse,
siamo mestamente giunti ad una situazione finale in cui tutto è stato
ricombinato e filtrato nell’atto, lasciando nulla in potenza e rendendo sterile
il collegamento della narrazione futura. Sappiamo ormai tutto: sappiamo degli
Abi, sappiamo della crioincubazione per il viaggio nel futuro, sappiamo della
natura salvifica della città e dei progetti di Pilcher. Nulla ci è dato ancora
da scoprire, ma tutto può evolversi solo sulla linea retta dell’azione, tra
situazioni già viste in altre produzioni action e una caratterizzazione dei
personaggi sempre più piatta, stereotipata e antica. Venendo a mancare le basi
del mistero che avevano retto l’inizio della prima stagione e sulle quali erano
stati costruiti i personaggi, crolla anche l’interesse relativo a questi e si
va a creare un prodotto dissimile dal suo atto d’esorsio, qualcosa di diverso
che però punta ad un livello più basso d’intrattenimento, più semplice e
immediato ma decisamente meno accattivante e immersivo. Esiste una differenza
abissale dal lasciarsi coinvolgere nella ricerca di una verità celata e la
visione sterile di una storia di sopravvivenza in un futuro postapocalittico. Il
postapocalittico funziona con le storie, le fazioni e i drammi personali, non
con i mostri mangia-uomini, la prima generazione di ragazzini a cui la società
ha insegnato questo e un protagonista senza l’ombra di un carisma.
Un progetto, quello della seconda stagione, che nasce quindi
con poche pretese, senza neanche la voglia di stupire che aveva
contraddistinto la prima stagione. Una serie ormai riservata ai pochi fan che
ancora hanno voglia di lasciarsi annoiare da un cinema non cattivo, ma
quantomeno banale. Nulla di nuovo dunque, ma non posso esimermi dal tentare di
ridare un senso a tutto quello che accadrà nei prossimi mesi nella ridente
Wayward Pines. Quantomeno in memoria dei vecchi tempi, quando Matt Dillon
sembrava Jim Carrey e si aspettava una settimana per scoprire chi avesse
piazzato le cimici per la città. Si stava meglio quando si stava meglio.
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