sabato 28 ottobre 2017

MINDHUNTER È IL NUOVO TRUE DETECTIVE?

È fondamentale essere in grado di proporre ancora prodotti originali nel panorama della serialità televisiva, ormai inflazionato in ogni sottogenere. L’esempio più lampante, dopo il successo ottenuto da Suburra nelle ultime settimane, è quello delle serie sulla criminalità organizzata, dalla nostrana banda della Magliana al cartello di Calì. Devo ammettere che, superato il fattore novità, il mio interesse verso questo genere di prodotti è andato via via scemando nel tempo, sopraffatto dall’incapacità di rinnovare i canoni e le formule tipici di queste opere. Filone ancora più prosciugato di idee, dato il tempo e la mole di serie prodotte, è indubbiamente quello poliziesco/noir; un vero e proprio tripudio di luoghi comuni e finti depistaggi che tendono sempre, inevitabilmente a ricadere nello stesso effetto copia-e-incolla. Gli ultimi anni hanno regalato al pubblico poche eccezioni, tra cui la meravigliosa prima stagione di True Detective (seguita da una seconda altrettanto valida), ma è proprio dall’atto primo della serie di Pizzolatto e Fukunaga che bisogna partire per poter parlare in maniera critica di Mindhunter.


Mindhunter è stata presentata al pubblico internazionale come “la serie di David Fincher”, nonostante il talentuoso regista curi appena quattro dei dieci episodi da cui la serie è composta, ma è corretto attribuire un peso specifico rilevante all’autore di Seven che ha saputo infondere la sua cifra stilistica ad un progetto che necessitava di una direzione forte per poter risultare vincente. Dicevamo dell’influenza di True Detective, che ha raffinato lo sviluppo e la scrittura di Mindhunter verso una commistione di generi che vanno dal poliziesco al pulp, passando per il dramma esistenziale. Gli autori sono stati in grado di fondere alla perfezione l’ambito della ricerca psicologica sui serial killer con i risvolti personali che questi eventi hanno sulle vite dei protagonisti, ed entrambe le situazioni sono scritte così minuziosamente, narrate in modo tanto magistrale da non lasciar trasparire mai alcun foro di proiettile. Accanto all’esempio di True Detective, analizzando Mindhunter con atteggiamento prospettico, è necessario riconoscere la grande eredità della serie somma: Breaking Bad. Anche in questo caso assistiamo all’evoluzione di un personaggio in particolare verso le viscere generate dalla pericolosità del suo impiego; e la magistralità della serie sta nella capacità di non mostrare esplicitamente le fasi del mutamento, per arrivare in un finale a tinte forti a chiedersi come si sia arrivati fin lì, per poi scoprire che tutta la serie, tutta la narrazione era in realtà l’appoggio per la giustificazione di questo cambiamento. E la reazione finale dello spettatore è di estremo stupore, tanto per gli eventi narrati, quanto per la realizzazione di un prodotto che tende ad andare verso quella conclusione fin dalla prima inquadratura.



Questa storia in parte oscura è raccontata nel contesto degli anni ’70, perfettamente riprodotti attraverso una colonna sonora favolosa e una messa in scena curata fino al minimo dettaglio. Siamo immersi in un vividissimo realismo che muove i personaggi nell’intreccio, ma è nella psicologia che ritroviamo la fonte primaria di questo realismo dilagante. La serie narra degli studi condotti nell’ambito della psicologia criminale per delineare il profilo del serial killer; le interazioni e le reazioni degli assassini, sia quelli intervistati per la ricerca che quelli incastrati nel mezzo delle indagini secondarie, sono guidate da una scrittura saggia che tende al realismo assoluto per elevare il livello della proposta della serie al di sopra della media dei gialli attuali. Non è stato fatto uso di semplici stereotipi, cliffhanger forzati e soluzioni improbabili, ma tutto è decritto attraverso una lente scientifica che inquieta e affascina. La vera tensione emotiva arriva dalla consapevolezza della reale plausibilità di quanto viene mostrato sullo schermo, e nulla genera più angoscia della realtà.


Mindhunter pecca nella prima metà per una narrazione troppo sbrigativa, ma quando cominciano a delinearsi le gerarchie dell'unità comportamentale si manifesta anche il perfetto equilibrio che conduce la serie ad un finale ipnotico. Pur non raggiungendo le profondità più oscure di Rust Cohle, la discesa negli inferi dell'agente Holden Ford merita un'attenzione particolare. Mindhunter è qualcosa che mancava.

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