lunedì 9 gennaio 2017

OCEANIA E LA NOIA IN MUSICA

Il nuovo classico Disney di natale fonde una realizzazione tecnica meravigliosa ad una magia che va svanendo, in un settore ormai ricco di rivali di livello. La struttura di Oceania (o Moana, se non avete paura di confrontarvi col passato italiano) appare fin troppo classica in un momento storico che necessita di nuovi stimoli per restituire prodotti affascinanti. Dopo ben ottant’anni dall’uscita del primo classico Disney siamo ancora di fronte ad una variazione sul tema: principessa, emancipazione, musical, finale conciliatorio. A cambiare stavolta è l’ambientazione, ma talvolta non basta uno sfondo diverso per camuffare i soggetti in primo piano.
Se con Zootropolis - inserito anche nella classifica deimigliori film dell’anno - la Disney aveva mostrato di essere in grado di sfornare grandi film d’animazione composti da differenti livelli di lettura, con Oceania siamo di fronte a un Frozen 2. Per me un Frozen senza ghiaccio, grazie! Il target di riferimento si abbassa notevolmente e ogni messaggio si perde nella banalità del linguaggio. Pochi picchi interessanti e molte sequenze infantili, decisamente lontani dal trittico Ralph Spaccatutto, Big Hero 6, Zootropolis.


La componente musicale abbassa poi ulteriormente l’appeal di un racconto già di per sé povero di acuti. Le sequenze cantate, in perfetta sintonia con le versione dei detrattori della casa di produzione, non riescono a collocarsi nella continuità della narrazione e spesso risultano fini a sé stesse. Non sono un amante dei cartoni animati segnati dalla presenza ingombrante delle canzoni, ma, confrontando Oceania ai capolavori del rinascimento Disney, è possibile notare che anche Hercules, Aladdin, Il Re Leone e Tarzan basavano la costruzione delle loro storie su alcuni momenti musicali, senza però eccedere e cercando di contestualizzarli sempre all’interno della narrazione. Nell’ultimo classico questo non accade e il risultato è un lento assopimento in sala, aspettando che la situazione si vivacizzi sul finale.
Il finale però resta spoglio della mancanza di un vero villain e il classico momento di fraintendimento tra i protagonisti, con conseguente scioglimento del gruppo, non prende come dovrebbe, scevro della minaccia incombente di un Ade, uno Jafar, uno Scar o un Clayton. Il vero rimpianto di questa pellicola è lo spreco di un potenziale implicito interessante, come dimostra il senso profondo del finale senza nemico. Il nemico reale in Oceania è infatti l’avidità umana che divora i finti eroi e il mondo circostante, portando gli individui ad isolarsi nella loro quotidianità priva di slanci e aspirazioni. Questo messaggio di fondo sarebbe potuto essere sviluppato in maniera decisamente più adulta e convincente, invece che attraverso una struttura inflazionata e infantile.



Il mercato sta cambiando, la mia richiesta e quella della mia generazione sta mutando. Eravamo cresciuti con i capolavori degli anni ’90 e ora ci ritroviamo in un panorama ben più complesso in cui riuscire ad accontentare i gusti di varie branche di pubblico appare sempre più difficile, ma la classe passa dalla capacità di andare oltre le forme della fruizione attuale per dare senso ad un complesso di idee originali e renderlo fruibile a tutti. Il passaggio deve essere dal complesso al semplice, non dal semplice al complesso o addirittura statico nella chiarezza della banalità, come in questo specifico caso. Kubo e la Spada Magica è riuscito a toccare tutti, partendo da un’idea immediata, ricamandoci attorno una storia innovativa e restituendo poi un prodotto semplificato nella sua esteriorità narrativa, per essere un film d’animazione per tutti, non solo per alcuni. Rendendo in questo modo ancora più appagante la scoperta di un significato profondo nella storia. Se ti chiami Disney, a volte fare un film quadrato, intelligente e visivamente impressionante non basta senza i modi giusti.

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