giovedì 13 agosto 2015

TRUE DETECTIVE 2 - FINALE

E quindi siamo giunti alla fine di quest’altro travagliato percorso insieme. Anche la seconda stagione di True Detective ha chiuso i battenti, e l’ha fatto nella maniera più dura possibile e immaginabile. Ci eravamo congedati magistralmente con la morte del malcapitato Paul in seguito al ricatto d’amore che aveva scoperto nuovi sotterfugi e che aveva ampliata il coinvolgimento di persone di spicco nella “questione Vinci” (espressione con la quale vorrei riassumere tutti i loschi traffici che contraddistinguono la città dalle poetiche autostrade). Ci ritroviamo quindi con i tre protagonisti rimasti ormai braccati dalla legge e dai fuorilegge, costretti ad organizzare una fuga verso la libertà. Fuggire in Venezuela per vivere e poter raccontare la verità. A volte sembra lontana la realtà di Vinci, sembra romanzata. Io non credo che la finzione sia così invadete e fuorviante rispetto al topic centrale, ossia lo stretto legame tra corruzione, potere e denaro. Può un uomo ottenere potere senza denaro? Può un uomo potente mantenersi retto senza cadere nella corruzione o fa parte del gioco? Stiamo attenti, l’Italia e l’America non sono così lontane.


Ani, Ray e Frank si ritrovano pronti a partire, ma ci sono ancora faccende da risolvere, enigmi da svelare e persone da salutare. Non voglio però riassumere la trama del maxi-episodio con annesso sporadico commento perché fare ciò per analizzare una serie così complessa sarebbe decisamente riduttivo; mi limiterò quindi ad elencare i momenti che ho preferito dell’epilogo. Pronti? Via.


Le mani - il momento in cui, in preda allo sconforto per la perdita dell’unico membro del gruppo davvero puro nel profondo e per la delicata situazione in cui si trovano, le mani dell’agente Bezzerides e del tormentato Velcoro si trovano in una scena lenta e personale che mostra definitivamente due animi bui che si fanno luce a vicenda. Una scena toccante, soprattutto alla luce degli avvenimenti successivi. Per questo punto avrei potuto anche scegliere il momento della chiamata tra i due, quello in cui la donna capisce di aver già perso ciò che a lungo aveva cercato, ma quelle due mani avvinghiate nella paura mi hanno ipnotizzato.

La visione - obiettivamente, per demeriti dell’attore che non si è dimostrato all’altezza della scommessa o per l’eccessivo carico di sfaccettature assegnate al personaggio, Frank Vaughn si è rivelato il più debole dei protagonisti e talvolta il complesso intreccio tra la vita privata dell’imprenditore e le attività mafiose in cui era invischiato ha fatto storcere il naso a qualcuno, me compreso. Per fare un esempio: la fantastica sequenza d’apertura del terzo episodio, quella in cui Frank propone un monologo sulla sua infanzia sofferta a causa di un padre dispotico e violento, è sì un grande esempio di cinema, ma a conti fatti non si lega in nessun modo con qualunque altra sottotrama della serie. Un momento intenso ma a sé stante. La morte del personaggio invece gi restituisce una dignità e uno spessore che non credevo avesse. La scena nel deserto in cui arranca alla ricerca della vita e comincia a vedere miraggi per certi versi reali, fino ad arrivare alla moglie, poi la consapevolezza e la caduta. Struggente e trascinante.

Le foto - all’annuncio della morte di Ray, l’ex compagna apre la busta del centro di analisi per scoprire la verità sulla paternità del rossiccio figlio, violando le volontà dell’uomo appena scomparso e scoprendo che egli era davvero ciò che ha volutamente e forzatamente finto di essere per anni. Le lacrime e poi quelle foto che ritraggono il padre e il figlio, l’innocenza del dubbio e la spensieratezza dei tempi passati. Il passato remoto di un personaggio che ha lasciato che l’ombra dentro di sé gli divorasse l’anima. Il dramma.

Cosa meritiamo? - la serie si apriva con la massima di Ray “We get the world we deserve”, ossia “abbiamo il mondo che meritiamo”, ma il discorso finale di Ani, un po’ come fu per Lost anni fa, stravolge questo breve e profondo inciso: a volte la vita ci porta a prendere quella strada sbagliata, quella che forse arriva dove volevamo attraverso un altro percorso o forse non arriva affatto, ma ciò non vuol dire rassegnarsi al male del mondo. il male nel mondo è ovunque e supera il bene. Il mondo è infinito e cambiare da soli non garantisce un mondo migliore; a volte il lerciume in cui viviamo e che crediamo essere zucchero filato dipende da noi solo in minima parte. Dipende in realtà da coloro che ci hanno fatto bere quella storia dello zucchero filato; allora noi NON meritiamo il mondo sporco e disinteressato in cui viviamo, meritiamo di più. Questo è monito a cui appellarsi per migliorarsi e migliorare ciò che ci circonda, per perdere la vita o scappare in Venezuela. We don’t get the world we deserve.



Questi i picchi che talvolta mi hanno colpito allo stomaco e altre volte mi hanno regalato lacrime che non ricordavo. Un finale noir e malinconico che accusa l’essere umano di mirare all’autodistruzione, che chiude una serie con una spessa e imperscrutabile coltre di fumo scuro. Il nero che macchiava le anime dei protagonisti è venuto fuori con prepotenza e ha delineato dei personaggi sempre più veri e sempre più consapevoli delle loro ombre. Oltre al loro nero però è venuto fuori anche quello del mondo, e quello è un nero che se visto una sola volta conduce inevitabilmente alla morte, fisica o spirituale. La trama per questa serie è stata solo un pretesto ben congeniato per raccontare di anime sole in cerca di consensi e di male profondo. Una serie che mostra molti caratteri del noir ma che difficilmente riuscirei a catalogarla e ad analizzarla nel complesso. I temi trattati, sfiorati o approfonditi sono stati molteplici e tutti molto interessati: paternità, alcolismo, violenza, corruzione, amore, mafia, impotenza di fronte alla forza straripante del fiume della vita quando è in piena, quando travolge. Una serie che rafforza la mia stima nell’individuo in grado di concepire tutto ciò, il mio collega scrittore Nick Pizzolatto (collega perché lentamente anch’io sto lavorando alla stesura di un racconto breve intitolato “Down” - ma questa è un’altra storia).
Questa stagione è partita decisamente male, raccontando lentamente una storia poco accattivante. Episodi confusi e ripetitivi. Ma le mie aspettative erano errate, cercavo altro. Poi ho smesso di cercare e ho trovato il meraviglioso Ray, ho trovato Paul e i suoi tormenti, Ani con il coltello sempre pronto e Frank mai arreso. Ho (ri)trovato True Detective. Con il passare delle settimane la serie ha saputo ammaliare lo spettatore e trascinarlo in un viaggio nel buio da cui è difficile uscirne senza esserne toccati. Il buio è freddo e violento, il buio è dentro ognuno di noi. Un viaggio da compiere in solitaria, come una traversata, per poi tornare consapevoli e maturi, cresciuti.


Ve lo starete chiedendo sicuramente anche voi. Che anche questa stagione di TD mi sia piaciuta enormemente mi pare evidente, ma quindi è meglio la prima o la seconda stagione? Per otto settimane ho volutamente evitato di fare riferimenti e paragoni, ma ora mi pare il momento di parlare, finalmente. Secondo me è meglio la… no, non è così facile! Oggi vi siete già sorbiti questo pesante e complesso commento che parte da una serie per parlare della complessità dell’animo umano. Datemi due settimane per riguardare la seconda stagione e avrete ciò che vi meritate. Meglio la prima o la seconda? Lasciatevi corrodere dal dubbio. A presto. True Detective non finisce qui.

2 commenti:

Umberto ha detto...

Sono contento di non leggere solo critiche in giro.
Visto che sono un estraneo da queste parti, non ho problemi a dire che ho preferito la seconda stagione. :)
Ciao e a presto!

Mattia MAD Santoro ha detto...

Grazie. Sono molto contento ti siano piaciuti il commento e la serie in sè. Continua a seguire il blog per sapere il mio modesto parere sul confronto tra le stagioni.