venerdì 4 marzo 2016

FIVE BY FIVE #11 - PUNK NEVER DIES

Normalmente l’idea che si ha del punk è quella della cosiddetta ondata del ’77: ragazzi a torso nudo, magri e scarni come la musica che suonano, borchie, mohawk, fiumi di eroina ecc. Immagine in parte reiterata dai gruppi punk revival a cavallo tra secondo e terzo millennio. Di per sé non è un’idea sbagliata, ma è decisamente superficiale, nel significato letterale del termine: riguarda solo la superficie, ciò che ha abbandonato il sottobosco della giungla sonora, il mainstream, insomma (mainstream che, non mi fraintendete, non ha necessariamente una connotazione negativa, i Nirvana erano mainstream).
Il fatto è che all’interno di un genere come il punk, nato nei bassifondi, tra i figli di operai con poche alternative e tanta rabbia, chi ha l’ardire di allontanarsi dal cuore del movimento e raggiungere luoghi dove scorrono i soldi ma meno il sangue, difficilmente sopravvive a lungo. I Sex Pistols sono implosi, i Clash sono riusciti a riacciuffare lo spirito originario per i capelli suonando in giro per i pub di mezza Gran Bretagna sul finire della loro carriera, senza Curtis i Joy Division hanno cambiato nome e genere e per finire, in tempi più recenti, i Green Day si sono ammosciati. Fate attenzione non sto dicendo che sia stato un loro demerito (ok, per quanto riguarda i Green Day sì), anzi, di questi gruppi ho apprezzato le evoluzioni, probabilmente anche perché le ho conosciute col senno di poi. Quello che sto dicendo è che i cambiamenti di cui sopra sono conseguenze naturali, fisiologiche. Il fulcro creativo/distruttivo del punk sta alla base del punk stesso, in quel sottobosco musicale, nel terreno sudicio e per questo fertile della società.
In effetti fin dall’inizio il termine “punk”, letteralmente “teppistello”, aveva un significato diverso. Innanzitutto nasce ben prima del genere vero e proprio, nel ’71, citato per la prima volta da Dave Marsh sulla storica rivista Creem, ma soprattutto ha un’accezione ben più ampia di quella che si tende ad attribuirgli, riferendosi a un’attitudine nei confronti della musica, del Rock ‘N’ Roll, a uno stile grezzo, a volte rabbioso, rumoroso e proiettato verso di se, indifferente e forse un po’ cinico verso il mondo. Perché è questo che è il punk, un modo di (es)porsi, un sentimento, e sia esso di rabbia, di noia, di sconfitta, rassegnazione o paura, viene vomitato in faccia al mondo o a chiunque stia ad ascoltare non per comunicarlo o perché sia la cosa giusta da fare (contrariamente all’apparenza siamo lontani dalla politica), ma perché si può fare. Un urlo viscerale, primigenio, e non intendo quello di Gillespie ma quello di Cobain, incompreso e incomprensibile, a prescindere da quanti documentari gli dedichino, al punto da farsi esplodere il cranio. Un grido angoscioso il cui eco si propaga ciclicamente, assumendo, sì, varie sfumature a seconda delle orecchie attente, ma senza mai cambiare davvero. Il punk non cresce, brucia per poi rinascere dalle ceneri con la stessa rabbia e lo stesso destino di autodistruzione. Fa per il gusto di disfare. È proprio questa indole da eterno sconfitto, quindi certamente vivo, che ha permesso al punk di perdurare forgiando una quantità di pesciolini d’oro dalle infinite forme e colori. Oggi ve ne propongo cinque come sempre, nuovi, classici, conosciuti e meno. Buon ascolto!



Guerilla Toss – Flood Dosed (2015)
I Guerilla Toss sono un gruppo punk nel senso più puro del termine. I suoi componenti sono ex studenti d’arte e la band è nata proprio con lo scopo di ironizzare e magari sovvertire la struttura e i metodi dell’istituzione scolastica. La loro musica è eterogenea e caotica, inteso positivamente, ascoltatevi il singolo Polly’s Crystal per rendervene conto. Schitarrate post-punk si mescolano a testi un po’ parlati, un po’ urlati, basso e batteria funkeggiante e sintetizzatori dalle esplorazioni cosmiche. Non sono un ascolto facile, può lasciare perplessi i puristi e non convincere chi non bazzica i questi “ambienti sonori”, ma sono un gruppo da tenere d’occhio e soprattutto d’orecchio.  



Viet Cong – Viet Cong (2015)
Perla inspiegabilmente ignorata dai più e accolta tiepidamente da pochi, il debutto dei canadesi Viet Cong  è uno di quei dischi che andrebbero ascoltati e riascoltati all’infinito. Le radici sono chiare: la precedente esperienza dei Women con i loro arpeggi dissonanti e nebbiosi, il suono pulito dei Wire. Il clima che si respira è quello del post-punk, non più così rabbioso ma più consapevole, disilluso, cinico, forse nichilista, costretto ad un progresso insensato. I testi sono un gioiello di frasi ed espressioni criptiche ma estremamente evocativi. Dopo numerosi ascolti l’album lascia infatti vuoti di senso e pieni di immagini e suoni e la sensazione è che bastino quelle immagini e quei suoni per stare bene.



Streetlight Manifesto – Everything Goes Numb (2003)
Non tutto il punk è però così cupo e grigio. Soprattutto quando si va a pescare nell’ambiente tutto patricolare dello ska-punk, le atmosfere sono ben diverse. Gli Streetlight Manifesto si distanziano a loro volta dal classico ska-punk: abbandonano quasi del tutto le chitarre in levare, il ritmo è sempre molto sostenuto, rimangono e si fanno sentire anche parecchio i fiati, regalando a tutto il loro album d’esordio una coerenza gioiosa caratteristica. È un genere questo diametralmente opposto, concettualmente, dal post-punk dei suddetti Viet Cong, a dimostrazione di come partendo da uno stesso punto si possa giungere a destinazioni differenti con idee e intenti differenti. Dipende molto dall’indole di ognuno credo, ma anche la voglia di trovarsi in un posto migliore, in un tempo migliore, può essere il giusto modo di affacciarsi al mondo.



Refused – The Shape of Punk To Come (1998)
Su quest’album è stato detto tutto ormai: le infinite influenze, dallo straight edge alla techno passando per il jazz, la batteria orgasmica di Sandström, le fantastiche linee di basso di Björklund, la dinamica irripetibile (e irripetuta ahimè); c’è tutto, perfettamente bilanciato e tenuto insieme da tanta, tanta rabbia. TSOPTC è uno di quegli album “nodo”, è un punto di arrivo per innumerevoli correnti e un punto di partenza per altrettante. Il merito più grande di questo grande album è però più profondo. È la ridefinizione di un non-genere come il punk, è la ricerca di un New Noise, di un rinnovamento in aperto conflitto con il punk-revival che spopolava in quegli anni. L’obiettivo, se ne esiste uno, era quello di dare una nuova forma al punk, mantenendone lo sprito. Ci sono riusciti? No, e proprio per questo, .



G.L.O.S.S. – DEMO (2015)
Per concludere questa carrellata, non potevo non citare l’ultima significativa incarnazione di questo genere. G.L.O.S.S. sta per Girls Living Otside Society’s Shit che di per sé è già eloquente. Sadie, Jake, Julaya e Corey sono quattro transessuali cresciute nell’underground di Boston da cui hanno assorbito tutta la rabbia che esplode poi nella loro musica. DEMO è il loro debutto, pubblicato a Gennaio 2015 ma che ci ha messo un annetto buono a farsi notare al di fuori della nicchia del queer-punk. Sono appena otto minuti di musica che però rimarranno per ben maggiore tempo incastrati nel vostro bel cranio. È impossibile infatti rimanere indifferenti di fronte alla forza suonata e urlata da queste ragazze:

They told us we were girls / How we talk, dress, look and cry
They told us we were girls / So we claimed our female lives
Now they tell us we aren’t girls / Our femininity doesn’t fit
We’re fucking future girls / Living outside society’s shit

Se c’è qualcuno a cui può essere dato il triste titolo di sconfitto in questi anni, quel qualcuno sono queste ragazze e ciò che rappresentano.
Se c’è qualcuno che può essere chiamato punk in questi anni, quel qualcuno sono queste ragazze e ciò che fanno.

Marsha Bronson

    



                

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