Nel 1971 il New York Times prima e il Washington Post
dopo entrarono in possesso dei famosi “quaderni del pentagono” e decisero di
rendere pubblici decenni di menzogne perpetrate dal governo americano sulle
guerre in Corea e in Vietnam. La ricostruzione storica degli eventi, per quanto
accurata e convincente, è un pretesto per entrare nelle falle del nostro
presente. Il fulcro del film è attuale: Spielberg tratta due temi sociali che
oggi sono quanto mai vivi e scottanti. I due protagonisti si spartiscono il compito
di portare avanti tali problematiche: da una parte Kay Graham, proprietaria del
Post, tocca il tema della posizione delle donne in ambito lavorativo, mentre il
direttore del giornale, Ben Bradley, entra a fondo della questione sul ruolo
della stampa nel sistema mediatico. La storia della rivincita sul maschilismo e
sulla misoginia della società americana sarebbe certamente interessante da
narrare e rielaborare, ma è sull’altra storia - quella sviluppata attraverso il
personaggio interpretato da Tom Hanks - che vorrei soffermarmi.
The Post liquida rapidamente le ragioni ovvie di una
parte della società rispetto al conflitto vietnamita, perché il film è il
racconto di una notte e di una scelta che cambia il corso della storia del
giornalismo. La questione non si pone rispetto al comportamento del governo, ma
in relazione ai rapporti tra due organi fondamentali del modello liberale. Il
problema si manifesta su schermo quando l’amicizia tra Kay, interpretata da
Meryl Streep, e il capo di gabinetto della Casa Bianca all’epoca dei fatti
svelati dai “quaderni del pentagono” si scontra con i doveri del giornalismo. Il
film sottolinea la distanza necessaria tra la politica e il racconto del reale perché
la stampa possa assolvere la sua funzione sociale.
La stampa è il Quarto potere e una democrazia che tende
ad accentrarsi nelle mani di pochi, che sopravvive grazie alle conoscenze e
alle amicizie, che chiude la verità nel cerchio dei soliti noti ha fallito il
compito più puro della democrazia, la partecipazione. La stampa - come
ribadisce il film in chiusura - è lo strumento attraverso cui il popolo
controlla l’operato dei politici. È una funzione dal basso per la sua
provenienza e dall’alto per il suo scopo ultimo; è sporca e trasparente,
osteggiata e vitale.
La rivolta del Post e degli altri giornali americani
contro lo strapotere mediatico di un governo ostruzionista aprì una stagione di
slancio ideologico, sulla spinta del ’68. Accessibilità della verità, cooperazione
a bilanciare il potere, mutamento sociale. Grande trasporto per una democrazia
tangibile in cui ognuno compartecipa della cosa pubblica. Oggi più che mai è
necessario riscoprire il valore della parola e la posizione che si deve alla
stampa nella scala che va dal primo all’ultimo cittadino.
Una stampa asservita, sensazionalista, rivolta alla parte
istintuale dell’uomo, alla ricerca del guadagno più facile, una stampa che
rifugge sempre più la sua funzione sociale ha contribuito a generare una
democrazia frammentata. La verità è in crisi dietro i proclami di partito
nascosti tra le colonne più autorevoli; le fondamenta della ricostruzione
civile devono essere i fatti. Una base di fatti su cui non possiamo avere un’opinione
che rompa la struttura logica delle cose stesse. L’innovazione tecnologica non
ha giovato all’incremento della funzione politica che la stampa ha in grembo
fin dal suo concepimento, fin dalla nascita della parola. La stampa è sì
propaganda, è anche doxa, ma mantiene sempre saldo un fil rouge con i fatti e
proprio attraverso la parola scritta è possibile ritrovare la verità sul reale,
sulla politica, sui rapporti sociali. Gli uomini hanno prima abusato del Quarto
potere per poi finire a cacciare la verità più sistematicamente efficace. Le ultime
scene di The Post toccano l’animo dello spettatore perché sono in grado di
mostrare attimi di un mondo ideale in cui la gente coopera per la verità, prima
della democrazia del televoto.
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