Smetto quando voglio: Ad honorem arriva dopo appena dieci
mesi dal suo illustre predecessore per tirare le fila del progetto e dare una
degna conclusione alla trilogia di Sibilia. La fine torna alle origini con un
terzo capitolo che punta nuovamente a pungere il sistema accademico e la
situazione economico-sociale odierna dopo una parentesi più action e
disimpegnata. La costruzione di questa saga, dalla sua programmazione inaspettata
alla realizzazione in back-to-back, valica i limiti della commedia italiana
contemporanea nell’ordine di una manovra pop, ardita, acida, seriale, insomma
assolutamente innovativa. La trilogia di Smetto quando voglio ha saputo
distinguersi fin dal primo capitolo per un’impostazione differente e dei
propositi che hanno dato vita ad un unicum nel nostro panorama cinematografico; il nuovo standard, insieme a Lo chiamavano Jeeg robot, per le commedie
alternative che verranno. Ma questo successo nasce da lontano.
Il primo film nasceva come uno stand alone concepito
dalla mente di Sibilia e prodotto brillantemente dal duo Procacci-Rovere. Una fotografia
particolarmente carica e saturata verso i toni acidi del giallo e del verde
faceva da biglietto da visita per un’opera fortemente malinconica sulla crisi
del lavoro per la generazione dei quarantenni. Il concept prendeva a piene mani
dal successo planetario di Breaking Bad per fondere la discesa morale ad una
componente sociale. Questo capitolo, nascendo come opera unica, aveva il merito
di delineare alla perfezione la banda dei protagonisti, lasciando poche
situazioni intentate e chiudendo sostanzialmente il cerchio con la fine dello
scontro col Murena. Opera prima certamente più classica, quadrata e autonoma.
La vera svolta, anche per i miscredenti dell’ultima ora,
è arrivata con il secondo capitolo, coscritto da Francesca Manieri e Luigi di
Capua, che ha saputo scucire l’arazzo del primo film per allungare i fili dell’intreccio
e continuare a ricamare una storia ben scritta, ben diretta e perfettamente
giustificata. Alcune scene del primo film tornano per essere mostrate da un’altra
prospettiva, e un semplice movimento di macchina genera la necessita di un’ulteriore
sviluppo degli eventi. I personaggi prendono il sopravvento sui loro stereotipi
accademici e salgono in cattedra per dettare i ritmi comici e narrativi dell’opera.
Smetto quando voglio: Masterclass vira verso una trama situazionale che apre ad
una forte componente action e spinge sul pedale della comicità. Al netto del
capitolo più brillante e irresistibile fa da contraltare un passo indietro
voluto e cercato dal punto di vista della critica sociale.
Il terzo capitolo della saga torna alla Sapienza per
distruggere definitivamente l’istituzione accademica o per salvare il
responsabile che ha messo in moto l’intero sviluppo. Smetto quando voglio: Ad
honorem è coerente con gli intenti del primo film e riporta i toni ad un
sorriso amaro che si fissa sul viso dopo le risate. Le due anime sviluppate dai
capitoli precedenti tornano in un film diviso in due grandi macrosequenze:
quella della fuga da Rebibbia e quella alla Sapienza; tutto ciò arriva a
compimento di un progetto cresciuto esponenzialmente nel suo sviluppo. È interessante
notare inoltre come sia ancora più preponderante la scelta di richiamare scene
dei film precedenti per dare all’intreccio degli snodi narrativi risolutivi. Il
finale poi non tradisce e preferisce colpire con una drammatica nota di realismo
piuttosto che esaltare ulteriormente l’epicità della situazione.
L’impressione complessiva è quella di trovarsi di fronte
ad un altro cinema, rivolto ad un pubblico differente rispetto a quello delle
solite commedie-dramedy italiani. Nel rinascimento del cinema italiano, la
trilogia di Smetto quando voglio può issarsi a baluardo di un’alternativa reale
grazie ad un approccio differente alla materia cinematografica. Ambizione e
compiutezza hanno spinto Sibilia a ritrovare un’internazionalità italiana: non
più un’opera dialettale che solo il pubblico nostrano sarebbe in grado di
apprezzare, ma un esperimento che internazionalizza temi italiani e contemporaneamente
localizza trame e dinamiche internazionali. Se vista all’estero, la trilogia
mantiene un senso e un certo appeal nonostante le scene conclusive non siano
girate un’università qualunque, ma proprio alla Sapienza, nonostante il carcere
da cui i protagonisti devono evadere sia proprio quello di Rebibbia.
La svolta fondamentale sta nel rilancio di un’immagine e
nella costruzione di un nuovo immaginario collettivo per un cinema intelligente
e ricercato. Smetto quando voglio è il trionfo di Sibilia, di Rovere e della
nostra banda, le migliori menti in circolazione.
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