Siamo arrivati allo sprint finale. Gli ultimi giorni di
ripasso prima della prova decisiva. E cominciano i conti, oltre all’ansia da
prestazione.
Crediti accumulati in tre anni di dormiveglia dietro quel
compagno che sembra la montagna di GoT: 12
Prima prova scialba: 9
Seconda prova che proprio a me mi dovevano mettere in
prima fila: 5 (prova d’indirizzo, per quelli che hanno sbagliato scuola e lo
ammettono solo 5 anni dopo, solo alla seconda prova)
Terza prova quizzone la indovino con una: 8
Potevate dirlo prima che la terza prova durava la metà
delle altre.
E quindi cominciano i conti: “Sono a 34. Se prendo 30 all’orale
arrivo a 64, mettici pure un paio di punti bonus che faccio due battute
simpatiche alla commissione e fa 66
…
ma cosa sto dicendo? Quando mai prendo 30 all’orale che
faccio fatica a parlare italiano e l’ultima volta che ho dovuto dire la poesia
a Natale coi parenti mi sono emozionato e ho vomitato sul vassoio di calamari e
scampi al centro del tavolo. Se mi va bene arrivo al 60, se la commissione è
magnanima. Sempre se mi va bene. E se no l’anno prossimo faccio il capobanda
qua al liceo, vengo tutte le mattine in moto, pure d’inverno, con la giacca di
pelle e gli occhiali da sole, vedi che le cose cambiano?”.
60, 66, 100.
Numeri. Ma quanto conta realmente nella vita il voto dell’esame i
maturità? Niente, diranno molti di voi. Niente, vi ripeteranno i vostri
fratelli più grandi. E invece vale eccome, potrebbe valere la vostra salvezza
in un momento specifico, ma lasciate che vi parli del mio primo giorno di
università.
Correva l’anno 2014. Mi apprestavo titubante a
raggiungere la ridente grigia Milano da bere per tuffarmi nel mondo
universitario. All’epoca non avevo ancora preso casa nella città degli
imbruttiti e dovevo fare circa due ore di viaggio ogni mattina per arrivare in
orario a lezione. Quella mattina, la mattina del primo giorno, arrivai in città
con un’ora d’anticipo, in università con mezz’ora d’anticipo, in aula con due
minuti d’anticipo. Comincio a capire quelli che vanno sempre di corsa.
Entro in aula tra l’impaurito e l’atterrito e sento una
voce dietro di me: “Mattia!”. “Ohibò - penso - devo ancora cadere in mezzo all’aula
durante la lezione più frequentata e già mi conoscono”. Così mi giro e vedo un
mio compagno di classe delle medie, che non vedevo dalle medie. Mi siedo vicino
a lui, conosco altre persone, tiro fuori le caramelle per fare amicizia, mi
sembra che stia andando tutto per il meglio, quando IL DRAMMA.
Entra un uomo sulla trentina, tracagnotto, vestito di
giacca e cravatta. Seguito da due ragazzi più giovani. Entra e si presenta come
l’assistente del professor Migliavacca, incaricato dallo stesso professore di
spiegarci alcuni particolari della vita universitaria prima della lezione vera
e propria. L’uomo mostra subito un atteggiamento ostile, prima deride i ragazzi
in prima fila, poi comincia a chiedere i voti della maturità.
“Quanto hai preso alla maturità?”
“83”
“Poco. E tu?”
“96”
“Poco. Solo i 100 hanno qualche speranza qui”
E mentre le nostre gambe cominciano a tremare, rincara la
dose: “Tutti in piedi. Vi divideremo per il voto di maturità. Tutti quelli tra
l’ottanta e il cento alla mia destra, gli altri a sinistra. Così possiamo già
vedere le facce dei più meritevoli”.
Dall’alto del mio ∂¥ mi alzo e vado a sistemarmi con
alcuni ragazzi a destra, nel gruppo d’elite. Poi l’assistente riprende la
parola e ci invita ad alzarci nuovamente in piedi per l’inno d’Italia senza il
quale non si può dare il via all’anno accademico. Uno dei due ragazzi che erano
entrati con lui poggia fa partire l’inno dal telefono e avvicina il microfono,
l’altro invece si presenta come un giovane tenore della scala e comincia a
cantare. Ci alziamo tutti, mano sul cuore, cantiamo con la voce spezzata.
Ma qualcosa non va.
Il tenore canta come il peggior inglese ubriaco al pub
quando partono gli Oasis.
L’assistente si siede e si riappropria del microfono.
“Ci siete cascati! Sono il segretario del comitato
studentesco, lista *metterenomebanaledilistaqualunque*, votate per noi anche
quest’anno”.
Guardo i compagni che avevo attorno, con qualche
gocciolina di sudore e il sorriso tirato di chi ha visto la morte in faccia. Quindi
torniamo a sederci ai blocchi di partenza e facciamo finta che sia stato solo
un brutto sogno. Il professore, un uomo sulla quarantina, più che strano
stralunato, entra in aula con venti minuti di ritardo e la nostra storia a
Milano ha inizio.
Tutto questo per dirvi che il voto d’esame non conta, a
meno che non vi troviate in situazioni limite come la mia, ma poi tutto finì
per il meglio. Circa. Il voto è la vostra gratificazione. Non è un cruccio, non
è un vanto. Ma la possibilità della certezza che il vostro reale valore
scolastico sia stato riconosciuto. Al primo vero esame della vostra vita. È un
valore relativo. Molti dei miei compagni di liceo nemmeno se lo ricordano il
loro voto. Ma è qualcosa che può assumere valore simbolico se siete voi ad
attribuirglielo. Oppure se siete Di Maio e utilizzate un 100 per spiegare gli
anni fuori corso all’università.
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