Il nuovo classico Disney di natale fonde una
realizzazione tecnica meravigliosa ad una magia che va svanendo, in un settore
ormai ricco di rivali di livello. La struttura di Oceania (o Moana, se non avete
paura di confrontarvi col passato italiano) appare fin troppo classica in un
momento storico che necessita di nuovi stimoli per restituire prodotti
affascinanti. Dopo ben ottant’anni dall’uscita del primo classico Disney siamo
ancora di fronte ad una variazione sul tema: principessa, emancipazione, musical,
finale conciliatorio. A cambiare stavolta è l’ambientazione, ma talvolta non
basta uno sfondo diverso per camuffare i soggetti in primo piano.
Se con Zootropolis - inserito anche nella classifica deimigliori film dell’anno - la Disney aveva mostrato di essere in grado di
sfornare grandi film d’animazione composti da differenti livelli di lettura,
con Oceania siamo di fronte a un Frozen 2. Per me un Frozen senza ghiaccio,
grazie! Il target di riferimento si abbassa notevolmente e ogni messaggio si
perde nella banalità del linguaggio. Pochi picchi interessanti e molte sequenze
infantili, decisamente lontani dal trittico Ralph Spaccatutto, Big Hero 6,
Zootropolis.
La componente musicale abbassa poi ulteriormente l’appeal
di un racconto già di per sé povero di acuti. Le sequenze cantate, in perfetta
sintonia con le versione dei detrattori della casa di produzione, non riescono
a collocarsi nella continuità della narrazione e spesso risultano fini a sé stesse.
Non sono un amante dei cartoni animati segnati dalla presenza ingombrante delle
canzoni, ma, confrontando Oceania ai capolavori del rinascimento Disney, è
possibile notare che anche Hercules, Aladdin, Il Re Leone e Tarzan basavano la
costruzione delle loro storie su alcuni momenti musicali, senza però eccedere e
cercando di contestualizzarli sempre all’interno della narrazione. Nell’ultimo
classico questo non accade e il risultato è un lento assopimento in sala,
aspettando che la situazione si vivacizzi sul finale.
Il finale però resta spoglio della mancanza di un vero
villain e il classico momento di fraintendimento tra i protagonisti, con conseguente
scioglimento del gruppo, non prende come dovrebbe, scevro della minaccia
incombente di un Ade, uno Jafar, uno Scar o un Clayton. Il vero rimpianto di questa
pellicola è lo spreco di un potenziale implicito interessante, come dimostra il
senso profondo del finale senza nemico. Il nemico reale in Oceania è infatti l’avidità
umana che divora i finti eroi e il mondo circostante, portando gli individui ad
isolarsi nella loro quotidianità priva di slanci e aspirazioni. Questo
messaggio di fondo sarebbe potuto essere sviluppato in maniera decisamente più
adulta e convincente, invece che attraverso una struttura inflazionata e
infantile.
Il mercato sta cambiando, la mia richiesta e quella della
mia generazione sta mutando. Eravamo cresciuti con i capolavori degli anni ’90 e
ora ci ritroviamo in un panorama ben più complesso in cui riuscire ad
accontentare i gusti di varie branche di pubblico appare sempre più difficile,
ma la classe passa dalla capacità di andare oltre le forme della fruizione
attuale per dare senso ad un complesso di idee originali e renderlo fruibile a
tutti. Il passaggio deve essere dal complesso al semplice, non dal semplice al
complesso o addirittura statico nella chiarezza della banalità, come in questo specifico caso. Kubo e la Spada
Magica è riuscito a toccare tutti, partendo da un’idea immediata, ricamandoci
attorno una storia innovativa e restituendo poi un prodotto semplificato nella
sua esteriorità narrativa, per essere un film d’animazione per tutti, non solo per
alcuni. Rendendo in questo modo ancora più appagante la scoperta di un significato
profondo nella storia. Se ti chiami Disney, a volte fare un film quadrato,
intelligente e visivamente impressionante non basta senza i modi giusti.
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