domenica 28 febbraio 2016

I 5 MOTIVI PER CUI THE HATEFUL EIGHT MERITA L’OSCAR

Ogni anno, di questo periodo, ci riscopriamo tutti critici cinematografici in concomitanza con la premiazioni dell’Academy Awords, per gli amici Oscar. Il problema in sé non sussisterebbe neanche; non è poi cosa così negativa un interessamento profondo e approfondito per la settima arte e la discussione aperta non è strumento da sottovalutare. Il problema è che siamo italiani, la distribuzione ci snobba propinandoci un mese di Zalone, ma noi non demordiamo e, ancora convinti dell’importanza delle nostre parole, ci gettiamo in previsioni azzardate avendo visto uno, o massimo due, film tra quelli in concorso. Ma questo è un altro discorso, e avendo già discusso qui con Antonio dell’importanza, della formula e del peso dei premi, non mi dilungo oltre.
Il punto su cui vorrei focalizzarmi maggiormente è l’esclusione forzata dell’ottavo film di Quentin Tarantino dalla lista dei papabili al premio più ambito. Una scelta dettata probabilmente da gusti tendenzialmente poco progressisti e da decisioni prese a tavolino per favorire un determinato mercato. Quentin, con “The Hateful Eight", si è confermato nuovamente “Il regista più influente della sua generazione” e ci ha regalato un’altra perla di lucentezza spendente da custodire ancora per molti decenni. Ecco quindi i cinque motivi per cui The Hateful Eight meritava il premio Oscar come miglior film:



1 - IL CONCEPT
In questi ultimi anni abbiamo imparato ad apprezzare maggiormente film di stampo teatrale, o tratti direttamente da pièce specifiche grazie anche ad un evoluzione in questo senso del cinema (ormai) di genere francese. Nessuno però finora aveva osato traslare tale formula, in via di perfezionamento, in un sottogenere innovativo come il thriller psicologico. Il risultato è una commistione di tendenze di carattere tarantiniano che riprende Agatha Christie e Carpenter e restituisce un quadro generale innovativo e sorprendente nella sua solidità narrativa e stilistica (merito anche delle trovate del maestro). L’idea di far coesistere insieme la violenza, lo splatter, la tensione emotiva, la storiografia americana e quegli odiosi otto sotto un tetto poteva risultare vincente solo tra le mani del migliore. Chapeau.

2 - LE INTERPRETAZIONI DEGLI ATTORI
Ne hanno già parlato in troppi della qualità delle interpretazioni di questo film, ma spendere ancora due parole credo sia necessario. Ciò che troppo spesso non viene considerata per dare un giudizio complessivo dei film di Tarantino è la qualità generale delle interpretazioni; da distinguere dalla somma di quelle specifiche. Troppo spesso i personaggi del regista vengono etichettati come sopra le righe e quindi considerati più semplici da interpretare per attori con un minimo di qualità. Ma tutto ciò è una minimizzazione dell’effettiva grandezza delle singole prove, che vengono appiattite e banalizzate al fine di essere poi criticate, al fine di sminuire il lavora meraviglioso di un abile plasmatore di fantasie. La qualità propria dell’interpretazione di un attore come l’ultimo Tim Roth, presa e trapiantata, con le giuste misure, in qualunque altro film in concorso quest’anno, risulterebbe senza dubbio svariate spanne superiore alle altre; ma, in The Hateful Eight, viene soppesata diversamente e si perde nel livello generale. Alla base di questa generalizzazione sta una mancanza nel dovuto apprezzamento delle interpretazioni del film, le quali non si perdono in sentimentalismi, non cedono al piacere comune e mantengono un’integrità unica dall’inizio alla fine. E poi c’è Samuel che, nella perfezione complessiva, perfeziona la perfezione e supera, almeno a parer mio, le sue migliori prove in accoppiata col pazzo Quentin. Una prova che sarebbe valsa in qualunque produzione del mondo svariati premi, ma che in questo caso passa quasi inosservata dalla critica. un po’ un’ingiustizia.

3 - LA COLONNA SONORA DI ENNIO MORRICONE
Lo so, lo so. Questo punto era molto scontato, ma stiamo parlando di uno dei tratti distintivi di questo capolavoro, al punto da sembrare, in alcune sequenze, il nono degli odiosi otto nell’emporio della sciagurata Minnie. Alcuni brani sono un concentrato di tensione pura e senza questi difficilmente il film sarebbe riuscito a trasmettere le stesse eccessive sensazioni di ansia, oppressione e timore. Il ritorno prepotente di un gigante della musica e del cinema. Il riconoscimento della statuetta credo gli verrà poi comunque concesso, ma la soddisfazione di un autore di questo calibro passa anche dal riconoscimento della qualità del prodotto da lui musicato, considerato anche il peso di queste note.  Non aspettiamo che sia passato a miglior vita per idolatrarlo, come abbiamo fatto con qualcun altro altro altro.

4 - IL RITMO
Questo punto si collega direttamente con la scelta del concept iniziale e assume un significato soprattutto in relazione ai precedenti lavori del regista. Il ritmo denota ancora l’evoluzione della creatura cinematografica di Quentin che, proprio quando sembra aver trovato una stabilità duratura, stupisce e rimescola le carte in tavola. Uno dei film che più apprezzo del regista statunitense è appunto Jackie Brown, bistrattato inizialmente dal pubblico e in parte dalla critica per la sua lentezza. Negli ultimi anni, invece, Quentin ci aveva abituato a ritmi folli o quasi con produzioni molto più movimentate e coinvolgenti quali Iglourious Basterds e Django Unchained. Ma il cinema non è solo questo. È anche riflessione, è anche dialogo. Ed ecco che il sommo torna a cambiare registro proponendo un ritmo che, sulla falsa riga della pièce teatrale, e ripercorrendo una sorta di divisione in capitoli che assomigliano spesso ad atti, si propone come la trasposizione di una lenta marea, composta di alti e di bassi, che mantiene incollato lo spettatore alla poltrona e gli mostra nuove vette di intrattenimento ricercato e non adatto a tutti.

5 - IL SOSTRATO
E per ultimo il punto più significativo e indubitabile che conferma la grandezza di una sottovalutata pellicola in 70mm. Per sostrato intendo l’accurata costruzione storica di fondo che sostiene, giustifica e rende credibile le storie dei vari personaggi. Nello specifico il sostrato di The Hateful Eight si focalizza sulla guerra civile americana. In questo caso però Tarantino non ha voluto tinteggiare uno sfondo realistico sul quale muovere i suoi personaggi, e non ha voluto neanche accentrare l’attenzione di eventi esterni sulle vicende del film; ed è proprio in questa mediata scelta mirata che ha saputo innovare se stesso e un modello ormai stantio nel cinema contemporaneo. Le singole storie degli odiosi otto sono intrecciate strettamente con il tessuto al quale appartengono gli uomini che hanno decretato la fine della guerra civile e i personaggi principali, chi direttamente, chi indirettamente, vedono le loro azioni profondamente condizionate dagli eventi passati vissuti sia in prima persona che da spettatori. Al contempo però questo quadro generale,decisamente realistico e politicizzato, viene messo in relazione con il piano degli eventi narrati direttamente dal regista, ossia quello presente all’interno dell’emporio di Minnie. In questo luogo angusto infatti la guerra civile è un eco che muove i protagonisti, ma non gioca il ruolo da protagonista della vicenda, restituendo così una narrazione secondaria sviluppatasi e conclusasi nella periferia della storia che conta. Un bilanciamento di livelli narrativi che stupisce e denota un livello di scrittura non raggiunto da altre produzioni in concorso.




Con questi cinque schematici punti non vorrei avervi fatto credere che questo film sia perfetto. In realtà infatti molte dinamiche tra i protagonisti e diverse scelte sarebbero potute essere diverse e magari avrebbero accontentato maggiormente il pubblico medio, i fan di Quentin e la critica. Ma il maestro è un po’ come le scale: a lui “piace cambiare”. E allora è nell’imperfezione che possiamo tornare a sperare che Tarantino si superi ancora, che possa regalarci, nei fantomatici due film che gli restano da girare, l’apice del suo Cinema. E l’imperfezione di questo febbraio è senza dubbio un’imperfezione da Nobel, o quantomeno da Oscar.

giovedì 25 febbraio 2016

TOP 10 SERIE ANIMATE CARTOON NETWORK - PRIMA PARTE

Ci fu un tempo remoto in cui la mia generazione andava a scuola con una coloratissima cartella di Dragon Ball con in mente un solo pensiero: tornare a casa per guardare i cartoni animati. Amici di mille avventure fantasiose e conducenti del treno della nostra infantile immaginazione creativa. Dopo (e quando dico “dopo” intendo dopo svariati mesi) la classifica delle migliori serie animate originali Disney, andate in onda su Disney Channel, è giunta finalmente l’ora di passare agli eterni rivali, la controparte oscura dell’essere fanciullo. Quel canale che sostituiva le fiabe e le atmosfere armoniche di Topolino con le nudità, il nonsense e le animazioni grezze. Sto parlando di Cartoon Network, canale digitale, ma i cui cartoni sono stati poi trasmessi anche in chiaro a distanza di poco tempo.
Come al solito ci tengo a precisare che la più grande influenza che subiranno posizioni e giudizi di questa classifica sarà il mio personalissimo gusto. E vorrei inoltre sottolineare che, data la mia veneranda età (e anche qualche capello chiaro - non bianco, ho detto chiaro), dopo il 2004/2005 ho purtroppo smesso di passare ore davanti alla tv, preferendo cose da omini duri come il wrestling, Monster Jam (che ogni ruota è più alta di Maradona - ricordatevelo) e i videogiochi. Ma basta tediarvi oltre. Che la classifica abbia inizio.



10° POSIZIONE: Star Wars: the Clone Wars
Sarò sincero: questa serie occupa “solo” la decima posizione di questa classifica perché banalmente non mi appartiene. Non è una delle serie animate della mia infanzia, essendo stata prodotta solo a partire dal 2004. Ho recuperato quindi in un secondo momento alcuni episodi del programma, invogliato soprattutto da quelle due paroline nel titolo che farebbero gioire qualunque fan della saga dell’imbronciato George Lucas, e devo ammettere che la qualità tecnica, le atmosfere e soprattutto la trama, perfettamente integrata nel tessuto della narrazione della serie madre, rendono SWTCW un prodotto interessante e ben congeniato. Peccato per alcuni momenti a tratti troppo sopra le righe che scoprono il velo della credenza nerd e riportano i quarantenni con i piedi per terra ricordando loro il vero target della serie animata. Stay out geeks!



9°POSIZIONE: Nome in Codice: KND
E cominciamo a parlare di quello che personalmente definirei lo “stile Cartoon Network”, ossia la cifra stilistica che contraddistingue le storiche produzioni originali. “Nome in Codice: KND” rispetta appieno queste caratteristiche e si propone come un’alternativa più che valida alla “Ricreazione” disneyana. Il tema centrale di questa serie è la fantasia con cui un gruppo di semplici bambini organizza le proprie giornate tra rifugi sugli alberi e segrete missioni in incognito. Tutto ciò che da bambini ci sembrava un mondo reale desiderabile si traduce in una fervida immaginazione dei protagonisti, la stessa immaginazione che avevamo noi anni fa e che ci permetteva di divertirci con nulla, di fare di scivoli castelli e di bastoni lame affilate. Una potenza perduta. Questa serie è un inno alla potenza dell’immaginazione che l’essere umano smarrisce sulla via della maturazione.



8° POSIZIONE: Samurai Jack
Altro passo avanti nel percorso tortuoso di maturazione della casa di produzione che decide di sperimentare e di allontanarsi dai canoni di fine millennio per rendere più folkloristica ed unica la cifra stilistica di questa serie animata. Il tratto e soprattutto i colori, infatti, sembrano riprendere a piene mani dalla tradizione orientale. Il risultato è un coinvolgimento totale, un prodotto che porta il bimbo spettatore ad incollare gli occhi allo schermo e a non staccarli fino alla fine della puntata. Spettacolari e molto cinematografici i combattimenti tra il protagonista e il demone Aku. Una serie per certi versi ancora insuperata, soprattutto per quanto riguarda le vette artistiche raggiunte, ma purtroppo a tratti bilanciata in maniera insoddisfacente.



7° POSIZIONE:  Johnny Bravo
Come definire Johnny Bravo. Beh, Johnny Bravo è una sitcom per bambini, o meglio che vuole sembrare per bambini pur alludendo velatamente a temi più maturi. I più innocenti si trovano quindi di fronte ad un palestrato e sproporzionato ragazzo dal ciuffo platinato, affetto dal complesso di Edipo e sempre in agguato quando si tratta di avvenenti ragazze. L’elemento su cui si fondava la serie non era tanto la narrazione o l’intreccio, quanto il protagonista stesso che, con un petto mastodontico, occupava l’intera scena attraverso momenti sconnessi e totalmente inutili, ma tanto inutili quanto divertenti. Era appunto il divertimento generato da questa caricaturale figura occhialuta alla David Caruso a portare avanti il programma e a far sì che i bimbini continuassero seguirlo senza pretendere una trama da Golden Globe.
Arrivato a questo punto mi sono chiesto se non fosse il caso di invertire di posizione Johnny Bravo e Samurai Jack. Ci ho riflettuto per qualche momento. Da una parte un divertimento ininterrottamente nonsense, dall’altro una ragguardevole componente artistica innovativa. Ma Johnny Bravo è Johnny Bravo, e Samurai Jack rimane al suo posto.



6° POSIZIONE: Le Superchicche
I maschietti si vestono di blu e le femminucce di rosa. I maschietti guardano i cartoni con i robottoni giapponesi sparamissili e le femminucce quelli delle principesse. Questi gli stereotipi più comuni sui gusti dei bambini che dovrebbero in qualche modo essere condizionati dal sesso, ma Le Superchicche rappresentavano e rappresentano tuttora una valida mediazione tra due modelli che non hanno mai davvero funzionato alla perfezione. Il cartone dalle linee sinuose e dai colori sgargianti univa tematiche prettamente femminile ai supereroi, alla difesa della terra e a dei fantastici combattimenti. Le tre protagoniste infatti, create in provetta dal professor Utonium (ma non ditelo a Giovanardi), cercavano di vivere la loro infanzia durante il giorno, ma erano spesso chiamate (letteralmente attraverso un esilarante siparietto comico con il sindaco e la sua segretaria) a difendere la città da supercattivi canonici, mostri giganti in stile godzilla e altre calamità. Ciò che spiccava era il perfetto bilanciamento tra la vita ordinaria e la componente supereroistica, tra la comicità scanzonata di alcuni personaggi e la tensione palpabile di alcuni momenti di pericolo. Una serie per certi versi perfetta, insomma, anche nella sua ordinarietà. Ma a spiccare su tutti, sui cattivi e sulle Superchicche, sul professore e sul sindaco, era lui: Mojo Jojo, idolo indiscusso della mia infanzia. Personaggio indiscutibilmente sopra le righe, a metà tra Will il Coyote ed Hector Polpetta. Quanto vorrei risentire ancora una volta le Superchicche esclamare in coro “Mojo Jojo!”. Ah, i ricordi.



Questa prima parte finisce qui. L’appuntamento è alla prossima settimana per scoprire insieme i piani più alti di questa classifica tremendamente nostalgica. Sperando di ricordarvi un po’ quando i problemi erano come conciliare i cartoni di Cartoon Network e quelli di Disney Channel, quando tutto era un po’ più magico e leggero. A presto.

sabato 20 febbraio 2016

FIVE BY FIVE #10

Lo so, vi aspettate che abbia da dire qualcosa su Sanremo ma ahimè rimarrete delusi perché Sanremo non l’ho proprio guardato. A dire il vero ho acceso la tv la sera della finale, c’erano Elio e le Storie Tese vestiti da Kiss. Ho guardato l’esibizione e ho spento, fiducioso che sarebbe stato impossibile durante la serata superare così alte vette di epicità. Al di là di quel piccolo capolavoro però non ho visto altro, non ho ancora nemmeno sentito le canzoni in gara, e non perché “Sanremo fa schifo, fanno musica di m***a, ecc. ecc.” (che poi chi è che guarda Sanremo per le canzoni?) ma perché sono in sessione d’esami e ho tante cose a cui pensare, ad esempio scrivere qualcosa per questa rubrica. Non vi parlo nemmeno dei Grammy, e stavolta per un motivo molto più serio: i Grammy fanno schifo. E fanno schifo perché vogliono farlo, è una scelta ben precisa: fare qualcosa che piaccia a quella fetta di pubblico che segue e dà importanza ai Grammy. Autoerotismo insomma. Per i cinque pezzi di oggi ho preso spunto da questi due eventi che, per caso o per scelta, non ho seguito, e vi propongo qualche artista italiano e qualche artista che meriterebbe di essere valorizzato ma non lo sarà. Ah e c’è anche un grande ritorno. Buon ascolto!  


Chi è Edo Brenneke? Non lo so bene nemmeno io, è difficile trovare informazioni perfino sull’onnipotente internet. Questo per darvi l’idea di quanto poco sia considerata, al di fuori di certi ambienti, la scena emergente italiana. Il che è un vero peccato perché questo Brenneke è in gamba e i suoi (pochi) lavori, un solo EP eponimo fino ad ora, sono decisamente interessanti. Quest’anno dovrebbe uscire il suo album d’esordio vero e proprio, Vademecum Del Perfetto Me, quindi vi consiglio di tenere le vostre orecchie ben ritte e ascoltare il singolo Le Cose Lucenti.



Lui forse – ma solo forse – è leggermente più noto, o quantomeno il fatto che sia poco conosciuto al grande pubblico è giustificabile con il suo essere molto di nicchia, come si suol dire. Lo stile di questo cantautore partenopeo è difficile da inserire all’intero di qualche genere o stile in particolare, non è etichettabile, e ciò va tutto a suo favore. Non essendo in grado di spiegarvi a parole com’è la sua musica non mi resta di farvela sentire. Superman è uno dei singoli del suo ultimo album, Giovanni Truppi. La fantasia manca nei nomi ma non nelle note, e ancor meno nei video come vedrete. Ah, se siete piccini non guardatelo il video, che poi mi sgridano.



Per quanto riguarda invece quegli artisti che avrebbero meritato più considerazione ma, ahimé, non l’hanno avuta, ho scelto due album usciti nell’anno appena trascorso. Il primo è Painted Shut del gruppo indie-folk Hop Along. Gli Hop Along in realtà avevano già pubblicato un album qualche anno fa, Get Disowned, anche questo notevolissimo e totalmente ignorato da critica e pubblico. Con questo nuovo lavoro hanno confermato le loro potenzialità, nonostante la scarsa considerazione che hanno ottenuto. Era da un po’ che ne volevo parlare quindi eccolo qui, ascoltatevelo per piacere.


Il secondo è Love Songs For Robots, di Patrick Watson. Anche questo uscito nel 2015, forse leggermente più considerato, ma presto e ingiustamente caduto nell’oblio. Non è un disco perfetto ma contiene molti spunti e più di qualche pezzo particolarmente riuscito, sarebbe un peccato perdervelo. Non fatelo.


Fianalmente rieccolo. Ho scoperto James Blake relativamente tardi, quando uscì Overgrown, e ci ho messo un po’ ad apprezzarlo, non è musica semplice anche se allo stesso tempo molto immediata. Come spesso accade ciò che a primo acchito mi lascia perplesso finisce col coinvolgermi molto di più di tutto il resto. Lo so, è strano, ma forse non così tanto. In tutti i modi, così è stato con Blake e come potete immaginare stavo attendendo sue nuove da tempo con trepidazione. Che dire, sono stato accontentato: Modern Soul, primo singolo del suo prossimo album sembra proprio confermare le doti di quell’ormai non più ragazzino che ha messo insieme Dubstep e R&B come pochi avrebbero saputo fare.


Marsha Bronson


giovedì 18 febbraio 2016

LA LEGA DEI LADRI

Ci siamo ricascati e la storia si ripete. Sono passati appena quattro anni dall’inconveniente legato all’inchiesta ai danni del tesoriere (ora felicemente barista - anche se un po’ confiscato di tanto in tanto), evento che aveva smosso le fondamenta del partito verde, il partito della secessione e delle origini celtiche. No; Il partito della legalità e della meritocrazia. No; Il partito dell’unità nazionale e del presenzialismo in aula. No; il partito dell’amore per il tricolore (un po’ fascista) e dell’odio verso lo straniero. No; il partito dell’accordo con Berlusconi criocongelato e con l’incinta Meloni (che tanto piace al sinitro Vecchioni) e delle ruspe come strumento di sterminio di massa. No; o forse sì. Confondersi con questi patriottici secessionisti è un attimo. Ma torniamo a noi e a quel malaugurato tesoriere che aveva inavvertitamente ottenuto qualcosa come quaranta milioni di euro inavvertitamente dai fondi riservati inavvertitamente al finanziamento pubblico ai partiti. Quegli spicci che noi tutti, ogni tanto, forniamo ai nostri rappresentanti casti e puri affinché la democrazia non diventi plutocrazia. Peccato che poi quegli spicci finirono, attraverso un arzigogolato passamano in stile “Fiera dell’Est” che coinvolse anche Mauro, Calderoli e Sperone, nelle mani dell’inavvertitamente fondatore espertodigestaccimaleducatissimi Umberto Bossi che, colto con le mani nel’impasto di una bellissima villa in marzapane, fu costretto a dimettersi dal suo ruolo storico all’interno del Carroccio.
Ma quello fu un errore. Chi doveva pagare ha pagato (così dicono) e la Lega Lombardoveneta, dopo una fisiologica flessione dei consensi, è tornata più forte di prima e ha cominciato a macinare consensi scontenti anche nella zona del Maghreb.


E poi ci siamo ricascati, la storia si ripete. Tutti avevamo ormai rimosso gli involontari misfatti dei fantastici quattro e ci curavamo solo di unioni civili, canguri e voltagabbana, quando riecco gli insospettabili del misfatto. Alcuni giorni fa, un’indagine della procura di Monza ha portato all’arresto di ventun indagati con l’accusa di essere parte di un sistema mafioso di tangenti, riciclaggio di denaro sporco e appalti truccati
Motorini truccati
Che scippano donne truccate
Il visagista delle dive
È truccatissimo.
Uno dei maggiori responsabili di questo losco sistema odontoiatrico sarebbe appunto Fabio Rizzi, fidato consigliere dello stesso legalissimo Maroni, presidente della regione Lombardia, che a sua volta era momentaneamente succeduto al meno legalissimo Bossi nel tentativo di ricostruire una facciata sgretolata e porosa. Il suddetto consigliere lombardo avrebbe, secondo le ipotesi, reso possibile il dirottamento di alcune gare d’appalto a favore delle stesse aziende. Addentrarmi oltre in dettagli tecnico-burocratici reperibili su qualunque quotidiano online sarebbe sterile e infruttuoso. Ciò che mi preme maggiormente è concentrarmi sulla legalità ormai evidentemente compromessa di questo gruppo politico, o forse no. Personalmente non metto in dubbio che il leader supremo Matteo Salvini sia un persona retta e corretta ("bat-tutaccia" - per dirla in maniera Fiorita). Non metto in dubbio che la maggior parte dei membri della Lega abbia costantemente operato nel buon senso di un’opinabile opinione personale e ristretta, mutata col tempo in pensiero salvifico delle masse. Non metto in dubbio che molti sostenitori dell’evoluto nord fondino la propria moralità sulla legalità, sulla sacralità dello stato e sull’importanza fondamentale del rispetto della costituzione. Non metto in dubbio nulla di tutto ciò. E allora chi ha sbagliato? Chi ha frodato la stato al fine di arricchire una piccola minoranza a spese del popolo? Chi ha aggirato le leggi cadendo in fallo? Rizzi (o chi per lui), Bossi, Belsito, Mauro. Persone da cui Matteo, scacciando con violenza il modello berlusconiano, prende immediatamente le distanze. Singoli individui che, a detta del segretario, non rappresentano in alcun modo il modus operandi, l’ideologia e la moralità del partito. Un partito unito che nelle difficoltà si spacca, dunque, e comincia a ragionare individualmente. 


A questo punto le strade sono due: da una parte il riconoscimento di responsabilità oggettive del presidente della regione Lombardia Maroni perché diretto superiore del burattinaio e quindi il coinvolgimento della Lega come partito intero, dall’altra il riconoscimento della singolarità di tal Rizzo. La strada che verrà presa sarà senza dubbio la seconda, e ciò potrebbe anche non essere un incongruenza, se noi non ragionassimo con ottusa logica leghista; ma oggi ragioniamo con ottusa logica leghista e l’incongruenza resta. L’incongruenza nasce dall’atteggiamento che un partito, o un gruppo di persone, ha in relazione ad una diversa minoranza. Nasce dalla generalizzazione che tutti i giorni viene compiuta dai media e dai politici, da quelli che teoricamente dovrebbero salvaguardare la moralità di un popolo e che dovrebbero rispondere in maniera opposta alla tendenza, spegnendo le fiamme e scintillando nel buio dell’ignoranza mediatica. L’incongruenza è frutto di un lavoro partitico che da decenni discrimina a prescindere, generalizzando il prossimo e sfruttando la singolarità nell’opera mediatica più becera, fondata sulla repressione, sull’odio e sulla disumanità a cui ci stiamo abituando troppo facilmente. Se quindi ormai siamo convinti che gli Albanesi delinquono e non si lavano abbastanza, i Rom rubano il rame, i Meridionali nonlavorano e se lo fanno è solo per togliere il posto a qualcuno del Nord e i neri stuprano e amano farsi mantenere da noi Italiani, popolo di santi ed eroi (comunque gente perbene), allora dobbiamo anche dare per vero che i leghisti sono delinquenti, immorali, fuorilegge. Rubano soldi agli italiani perbene e guadagnano alle spalle dei malati. Ma tutto ciò è falso e non rappresenta il mio mondo. il quadro d’odio dipinto da Salvini e soci con pennarelli verde d’invidia non rappresenta il mondo per come esso è in realtà: un posto in cui il male non sovrasta mai il bene, mai del tutto.

Cari leghisti, se volete che quindi i membri del vostro grande Carroccio comincino ad essere pesati singolarmente per le loro azioni, espressioni, opinioni, mancate votazioni del DDL Cirinnà, iniziate a trattare voi il diverso, l’estraneo immediatamente incompatibile con il vostro universo perfetto, retto dalla legalità, come una persona a sé stante, come un individuo unico ed inimitabile, come un Rom che non ha mai visto un filo di rame, come un cinese defunto a cui viene fatto un funerale, come un immigrato clandestino che è qui solo di passaggio e mai penserebbe di condividere un tricolore con folkloristici individui come Matteo Salvini, o come quel tale che pensava il mondo fosse un bel posto e invece era nato in Siria.

domenica 14 febbraio 2016

L’AMORE DELL’ARAGOSTA

La società odierna è ingombrante e non si cura di invadere il privato con prepotente ed ostinato condizionamento. Ci ritroviamo spesso in situazioni in cui, con un minimo di riflessione più approfondita, ci accorgeremmo di quanto in realtà le nostre azioni siano preindirizzate sui binari certi della convenzione comune, della morale e del modello predominante. Un modello che arraffa spazio alla luce della scena, fagocitando anche ciò che consideravamo valori intrinseci dell’essere essere umano, la sfera privata e indubitabilmente nostra degli affetti. Una società che uniforma, appiattisce e uccide nell’indifferenza della noncuranza riconosciuta e nella standardizzazione forzata la componente personalistica di ognuno di noi, andando inevitabilmente a porre delle limitazioni a ciò che di più caro l’uomo ha: la libertà. Libertà che conferisce implicitamente identità.


Prendiamo per un momento questo inquietante e bigio quadro orwelliano in cui l’uomo si priva della libertà nell’ambito affettivo per far fronte alle esigenze di una società esclusiva ed escludente, accelerata e discriminatoria, e proviamo a portarlo all’eccesso. Proviamo poi a fondere quest’eccesso con un sistema simildittatoriale che strizza un occhio al Secolo Breve e un altro alla crisi del capitalismo di stampo statunitense e amalgamiamo il tutto con un pizzico di fantascienza velata e notevole abilità registica. Ecco come ottenere The Lobster, film angloellenico nato dalla fantasia distopica e leggiadramente provocatoria di  Yorgos Lanthimos. La pellicola, premiata anche all’ultima edizione del Festival di Cannes, è ambientata in un futuro vicino e degenerato, o in un presente alternativo rispetto al nostro, in cui il potere dell’opinione comune ha preso il sopravvento sulle istituzioni e le leggi hanno cominciato ad invadere i sentimenti e lo stile di vita dell’uomo nel privato. In questo contesto oppressivo, i cittadini sono costretti, secondo la costituzione in vigore, ad avere costantemente un partner; pena la fantasiosa e spregevole trasformazione in un animale scelto dalla vittima della metamorfosi cruenta. La vicenda prende piede quando il protagonista, Colin Farrell, viene lasciato dalla moglie e si ritrova a rientrare nel progetto di riaccoppiamento forzato voluto dal governo, ossia un periodo di permanenza in un’apposita struttura con l’obiettivo di trovare un nuovo partner ed evitare così la trasformazione nell’animale prescelto, per Farrell un’aragosta appunto. Il tempo concesso ai malcapitati uomini soli consiste in appena quarantacinque giorni. Quarantacinque notti per trovare quella che dovrebbe essere l’anima gemella, secondo la direzione della famosa struttura riabilitativa, ma che troppo spesso si trasforma nel rimpiazzo salvifico necessario alla sopravvivenza di due perfetti e infelici estranei; il tutto per la sola necessità di ostentare poi con sorriso farlocco una presunta unità d’intenti, una felicità mancata nell’oppressione della libertà mancante. Il protagonista si troverà quindi a fare i conti con diverse donne, ma nessuna sembra essere davvero quella giusta per un animo quieto che introspettivamente attende e trema, rispettando il prossimo e continuando a nutrire una flebile speranza nella felicità concepita nella possibilità della libertà negata. Ma il tempo scorre e la stanza cupa della trasformazione crostacea incombe sull’ombra del solitario cercatore d’oro raro.


L’intero film si presenta come una forte critica di costume, estremizzando all’eccesso e fondendo anime aspre differenti per riuscire a colpire più elementi, senza necessariamente dilungarsi in processi direttamente inutili. L’obiettivo primario di Lanthimos è la nostra società, fortemente convinta di perseverare nel giusto di ciò che non va al di là di un semplice modello interpretativo della realtà circostante. I legislatori falsulli del film siamo noi, è la nostra società che non si cura, o almeno non lo fa più, della sostanza che mantiene viva la fiamma della speranza dell’anima, ma solo della forma, perché questa si conformi e risponda ai nostri standard. Siamo noi che ci annulliamo a vicenda continuando a credere alle apparenze, livellandoci nel basso della morte dell’individuale felicità. E in questo concorso di colpe impersoniamo l’immenso spirito di una civiltà assolutista che esclude chi si differenzia, impersoniamo la legge e portiamo sulla carta della mente di ciascuno ciò che non sussiste per prove gnoseologiche. Una società che pubblicizza il privato e privatizza il pubblico.


La critica dell’autore non si ferma però solo a questo aspetto ossessivo e violento della ricerca di somiglianza nella cultura contemporanea, ma non manca di colpire anche la discriminazione sessuale, elemento degenerato, figlio della stessa mancanza di apertura nei confronti dei modelli di vita altrui. Emblematica la scena iniziale all’interno del luogo di cura in cui viene chiesto al protagonista di specificare il suo orientamento sessuale nella richiesta di ammissione al programma di risanamento della persona abbandonata. A quel punto Farrell è preso dai dubbi per un'esperienza omosessuale avuta ai tempi del college e chiede la possibilità di selezionare entrambi gli orientamenti (bisessualità), ma ciò gli viene negato. La società ha bisogno di saperti nel privato e necessita assolutamente che tu prenda una decisione netta, indipendentemente che questa sia consapevole, ragionata e volta al raggiungimento del benessere. La società vive della sommaria approssimazione dell’individuo, e quando questa forma mentis prende il sopravvento sulla ragion pura della libertà morale, si ha l’ingrandimento schiacciante della sfera pubblica che rompe gli argini e ingloba il privato in un unico grande annullamento collettivo, operato dagli stessi annullatori. Un futuro distorto nel terrore dell’aragosta che in molte situazioni si materializza nel reale.


Nel giorno degli innamorati, la domanda non è “Hai la ragazza?” o “Quante volte fai sesso?”, ma “Sei Felice?”.

giovedì 11 febbraio 2016

NBT: THE HATEFUL EIGHT

The Hateful Eight” secondo Google Traduttore significa “gli odiosi otto”, ma in realtà gli otto personaggi protagonisti dell’ottavo film di Quentin Tarantino non sono poi così odiosi. Certo sono tutti dei gran figli di puttana ma in fondo ci stanno simpatici tutti e otto.
Sapete cos’è odioso invece? L’intervallo tra primo e secondo tempo che fanno nei cinema. Cinque minuti di pausa che spezzano il ritmo del film magari bloccandolo nel bel mezzo di una scena. Che rottura di coglioni. Però non tutto il male vien per nuocere: l’intervallo in “The Hateful Eight” ad esempio mi ha aiutato a capire una cosa. E cioè che il film essenzialmente si divide in due parti. Nella prima parte (prima dell’intervallo) viene costruita la suspense e la tensione cresce e cresce e cresce … poi, nella seconda parte (dopo l’intervallo) i misteri vengono svelati e la tensione accumulata si sfoga in un tripudio di sangue e irrealistiche mutilazioni. Quindi in The 8ful 8 abbiamo un approccio differente rispetto ai film precedenti del regista nei quali la violenza era spalmata lungo tutta la pellicola.


La suspense che si crea nella prima parte del film ricorda quasi lo stile dei romanzi gialli di Agatha Christie, ma nello scrivere “The Hateful Eight” l’ispirazione principale per Tarantino è stata “The Thing” (“La cosa”) un horror del 1982 diretto da John Carpenter. Le similitudini tra i due film sono molto forti. In entrambi un gruppo composto da persone che non possono fidarsi le une delle altre si trova isolato e  costretto a convivere con il terrore costante che qualcuno possa uccidere tutti da un momento all’altro. Nessuno può fidarsi di nessuno. Ciò vale per i protagonisti ma anche per lo spettatore che non sa nulla sui personaggi tranne quello che viene rivelato dai personaggi stessi e tutto ciò che dicono potrebbe essere falso.
La prova definitiva che “The Hateful Eight” riprende le atmosfere di “The Thing” si trova nella colonna sonora firmata dal maestro Ennio Morricone: nella soundtrack di “The Hateful Eight” accanto a pezzi originali troviamo anche alcuni vecchi brani che Morricone aveva composto per “The Thing” ma che erano poi stati scartati da Carpenter.



Un altro elemento in comune tra i due film è l’attore Kurt Russell che è presente in entrambi (burbero pilota d’elicottero in “The Thing” e burbero cacciatore di taglie in “The Hateful Eight”). Russell, che a soli 15 anni è stato scelto da Walt Disney in persona per una serie di film e che da adulto grazie alle sue collaborazioni con John Carpenter è diventato un’icona del cinema degli anni ’80, oggi a 64 anni dimostra di avere ancora il tocco magico consegnandoci un’interpretazione degna del suo nome. Del resto la parte del cacciatore di taglie con un rigido codice d’onore sembra scritta apposta per lui (e probabilmente è proprio quello che è successo) ma Russell non è l’unico ad aver dato il meglio di sé, tutto il cast è stato formidabile. L’intramontabile Samuel L. Jackson si riconferma un mago nel dar vita a personaggi dalla moralità discutibile e dall’embolo facile. Nel descrivere il suo personaggio in “The Hateful Eight” Sam lo ha definito una sorta di “Hercule Poirot negro”, confermando che in effetti le influenze di Agatha Christie nel film ci sono eccome. E poi ragazzi … che brava Jennifer Jason Leigh che interpreta la prigioniera costretta ad incassare calci pugni e pallottole per tutta la durata del film. Ma che bravi anche gli altri attori: Bruce Dern, Walton Goggins, Tim Roth e tutti gli altri. Tarantino è sempre stato in grado far recitare anche i sassi se poi si trova tra le mani un cast d’eccezione allora sì che ci possiamo divertire.

E nell’ottavo film di Quentin Tarantino ci divertiamo eccome, “The Hateful Eight” è uno straordinario esempio di come un regista possa sperimentare e al contempo rimanere fedele a sé stesso. Che film spettacolare! Che spettacolo filmico! Che maestria cinematografica! Che assenza di flessibilità nella produzione causata dell’assenza di adattabilità nell’uso dei fattori di capitale … ehm scusate mi sono distratto. Sto studiando troppo in questo periodo.

Antonio Margheriti

domenica 7 febbraio 2016

HIS MAJESTIC GRACE

Come sarebbe andato il mondo se Jeff non avesse deciso di fare quel tuffo in quella notte di maggio? Cosa sarebbe oggi la musica se la vita non avesse preso la nostra direzione? Sarebbe stato accantonato dopo poco tempo dai critici della vita degli altri con la scusa più banale ancora del cognome del ragazzo o avrebbe col tempo oscurato anche la folta chioma di un padre dall’ombra ingombrante? Questo non ci è dato saperlo, ma ciò che ci rimane è un semplice disco che potrebbe sembrare portatore di un nome di ragazza, ma che in realtà rappresenta un piano superiore, l’oltrenatura che permea l’intero globo e lega le anime dei puntini che, insaziabili e instabili, muovono e s’agitano senza meta e molto assetati. Grace è Grazia, Grace è spirito, è la più profonda convinzione che mosse Jeff Buckley a comporre quest’opera attingendo anche da fonti esterne ed estranee alla propria penna, ed è anche l’atmosfera che genera ad ogni ascolto, dal primo all’ultimo di una vita, dalla nascita fino al tuffo nel nostro fiume più buio o solare; la luce dipende dalla Grazia.
Ogni nota, ogni strofa è pregna di amore e sofferenza, di fede instancabile e di forsennata ricerca. Ogni chitarra strazia e accompagna, ogni piano rompe il silenzio gelido di una credenza sopita e velata. Una per tutte: vita. quest’opera è vita di un uomo convinto di credere o di voler credere, sfumature di moti distinti eppure confusi. Grace accompagna l’ascoltatore in un percorso sdrucciolevole che frana ad ogni passo e che si fortifica alle spalle, lungo la via del nulla, ma che illumina ogni passo di più la mente di uno stanco e sofferente  camminatore.


L’opera del Buckley minore alterna momenti di terribile durezza ad altri consolatori e patristici (il passaggio diretto dal dolce e religioso falsetto di “Corpus Christi Carol” alla tendenza rock anni ‘90 della chitarra di “Eternal Life” ne è esempio lampante); Jeff padre-madre tenta di mettere in musica una crescita spirituale che gli conferiva purezza di sguardo e di parola. Ma parlare della musica in modo tecnico sarebbe una storpiatura immane, analizzare allo stesso modo Grace e altri lavori, seppur dello stesso genere, rappresenterebbe una preclusione significativa per la comprensione di un’opera superiore e lontana da modelli strutturati in maniera conveniente. In questo caso nulla è conveniente, nulla sembra essere posto in una tal posizione nel tentativo di compiacere l’ascoltatore, ma l’intera composizione sembra sintesi di anima e arte, trasposizione perfetta e filtrata dallo spirito stesso per raggiungere una forma definitiva e completa nel complesso. Parlare delle canzoni sarebbe dunque superfluo; elogiare la grazie di Grace, la bellezza intrinseca di “So Real”, la commozione di “Last Goodbye” e la dolce purezza di “Lover, You Should’ve Come Over” sarebbe inutile, ma un brano svetta ancora oggi tra gli altri e non menzionarlo in maniera particolare potrebbe essere delittuoso.


Hallelujah” non è solo un pezzo, un susseguirsi di note, è un grido in poesia, un’irraggiungibile interpretazione di un brano maestoso e superiore. Hallelujah non è un canto, non una parola, un’esclamazione, un ritornello convincente, ma la storia di un genere, quello umano, che da sempre ricerca la verità, ricerca risposte certe a domande dubbiose o risposte confuse a domande fondanti, da sempre ricerca Dio in un mondo che non lascia spazio alla Grazia della fede, che non crede di poter credere che il genere umano possa infine trovare quello che cerca, e quello che cerca si allontana sempre più. Un genere umano che cerca, ricerca, ma intanto vive e ama e soffre e patisce e sopporta e uccide e sottera e ama di più. E l’amore non è una marcia trionfale, ma un freddo e grave Hallelujah. E, come Agostino, Jeff indica con dito insicuro la strada verso una Grazia che possa condurre l’uomo a sopravvivere nella gioia questa terra sconfitta nell’orgoglio del santo. Hallelujah rivive momenti di un passato che immaginiamo fu e illumina un futuro ombroso che immaginiamo mai sarà. Non è il canto di ricerca e forse neanche di liberazione, che spesso si crede a causa di interpretazioni controverse e contrastanti, ma un canto di tensione infinita alle porte di una quiete divina che s’adombra nella memoria perduta di chi non vuol credere di credere. Hallelujah è la nostra storia titubante, è ognuno di noi, le nostre storie spirituali. Ogni respiro che prendiamo è Hallelujah. E ascoltare quest’ultimo respiro di Jeff, tra malinconia e dispiacere per una perdita insensata che ha incensato il mito che sarebbe stato in ogni caso, purifica, commuove e rinvigorisce l’uomo adagiato nell’anfratto della quiete stanca e ignorante. Lo sorregge e lo spinge verso mete dimenticate. La sua maestosa Grace, ogni tanto, fa venir voglia di credere.

Well, maybe there's a god above 
But all i've ever learned from love 
Was how to shoot somebody who outdrew you 
It's not a cry that you hear at night 
It's not somebody who's seen the light 
It's a cold and it's a broken hallelujah


venerdì 5 febbraio 2016

FIVE BY FIVE #9

Quante cose sono successe in questo Gennaio! Rihanna ha pubblicato il suo attesissimo(?) nuovo album, Anti, che, con ben 460 copie vendute, ha ottenuto il disco di platino nei sempre divertenti States, Bernie Sanders nel frattempo perdeva per un soffio il caucus in Iowa ma ha dimostrato che in quanto a gusti musicali, ci dispiace per Hilary, non ce n’è per nessuno e Kanye West ha annunciato la data di uscita del suo nuovo album SWISH, che sarà il disco dell’anno…anzi no, della vita proprio…ma forse lo chiamo Waves che è meglio…ah e stavo scherzando, non è il migliore disco di sempre.
Ma il mondo della musica è grande e tondo (ma non ditelo a B.O.B.), e tra tutte queste vicende emozionanti è facile perdersi qualcosa. Oggi vi parlo quindi di cinque nuovi album usciti questo Gennaio: quattro che magari vi siete persi e che dovreste ascoltare più uno che magari vi siete persi ed è meglio così, fidatevi. Buon ascolto!
 


Suicide Songs – MONEY (29/01, Bella Union)Il titolo di questo secondo lavoro in studio del trio di Manchester suggerisce già in parte l’atmosfera del disco. Suicide Songs è infatti un album melanconico e riflessivo ma sorprendentemente piacevole all’ascolto. Colpisce soprattutto la struttura delle canzoni, tra sonorità acustiche immediate tipiche del po-rock e arrangiamenti orchestrali. Roba alla Ocean Rain degli Echo and The Bunnymen per capirci.
Da ascoltare: I’ll Be The Night 

Ritual Spirit EP – Massive Attack (28/01, Virgin)Il duo di Bristol sembra proprio essere tornato…be’, a Bristol. Il nuovo EP dei Massive Attack – che si facevano attendere da ben sei anni – si riappropria delle atmosfere cupe e uggiose delle origini, quelle che hanno reso grande il trip-hop, insomma. Ritual Spirit è un ottimo album, funziona benne in tutte le sue parti e con tutte le collaborazioni (Roots Manuva, Azekel, Young Ftahers, Tricky) e fa sperare in un – peraltro probabile – nuovo lavoro in studio.
Da ascoltare: Take It There (ma ascoltatevelo tutto che è un EP, so’ quattro canzoni e meritano)
 

Jesu/Sun Kil Moon – Jesu/Sun Kil Moon (21/01, Rough Trade/Caldo Verde)Mark Kozelek è uno degli artisti più prolifici in assoluto. Tra lavori solisti, collaborazioni e, ovviamnte, i suoi Sun Kil Moon ha pubblicato quattro album solo negli ultimi due anni. E tutti di ottima qualità, che non è da poco. L’ultima di queste “fatiche” è uscita il 21 Gennaio ed il frutto della sinergia tra i Sun Kil Moon e i Jesu (Justin Broadrick). L’unione delle chitarre ronzanti e un po’ industrial di Broadrick e la voce inconfondibile di Kozelek, che spesso si avvicina più allo spoken words che al cantato, non è  affatto scontata, ma funziona più che bene.
 

Macrocosmos Microcosmos – PAUW (22/01, Caroline)L’ondata australiana che ha investito la psichedelica all’inizio di questo decennio ha sì ridato nuova linfa al genere, ma a volte sembra mettere un po’ in ombra tanti altri gruppi “vecchia scuola”, per così dire. Ne sono un esmpio i poco considerati Stealing Sheep, che pure hanno fatto cose interessanti (Into The Diamond Sun su tutte). Sono passati decisamente in sordina anche questi PAUW, band olandese che con Macrocosmos Microcosmos – debutto discografico – dà invece una buona prova, non esente da difetti e imperfezioni ma comunque interessante, soprattutto se amate la psichedelica e il prog d’altri tempi.
Da ascoltare: Visions 

Nevermen – Nevermen (29/01, Ipecac)Ci sono ricascato. Per l’ennesima volta leggo dell’ennesimo supergruppo composto da artisti di un certo calibro e come ogni volta, dopo averli ascoltati, ne rimango deluso. In questo caso parliamo dei Nevermen, progetto nato dall’inedita collaborazione tra Tunde Adebimpe (TV on The Radio), Mike Patton (Faith No More) e Doseone, che hanno debuttato lo scorso 29 Gennaio con l’album eponimo. Album che, semplicemente, non funziona, ma proprio per niente: diversi stili e sonorità poco o per nulla amalgamate che finiscono per soffocare anche gli spunti migliori e rendono il tutto piuttosto noioso. Un peccato davvero.
P.S. Quando ho scritto queste cose qua sopra forse ho un po’ esagerato, il disco non è proprio malaccio, ma considerando la gente che lo ha fatto mi aspettavo ben altro.
Da ascoltare: Mr. Mistake (qui il remix dei Boards of Canada che alzano il livello)

Marsha Bronson