Come sarebbe andato il mondo se Jeff non avesse deciso di
fare quel tuffo in quella notte di maggio? Cosa sarebbe oggi la musica se la
vita non avesse preso la nostra direzione? Sarebbe stato accantonato dopo poco
tempo dai critici della vita degli altri con la scusa più banale ancora del
cognome del ragazzo o avrebbe col tempo oscurato anche la folta chioma di un
padre dall’ombra ingombrante? Questo non ci è dato saperlo, ma ciò che ci
rimane è un semplice disco che potrebbe sembrare portatore di un nome di
ragazza, ma che in realtà rappresenta un piano superiore, l’oltrenatura che
permea l’intero globo e lega le anime dei puntini che, insaziabili e instabili,
muovono e s’agitano senza meta e molto assetati. Grace è Grazia, Grace è
spirito, è la più profonda convinzione che mosse Jeff Buckley a comporre quest’opera
attingendo anche da fonti esterne ed estranee alla propria penna, ed è anche l’atmosfera
che genera ad ogni ascolto, dal primo all’ultimo di una vita, dalla nascita
fino al tuffo nel nostro fiume più buio o solare; la luce dipende dalla Grazia.
Ogni nota, ogni strofa è pregna di amore e sofferenza, di
fede instancabile e di forsennata ricerca. Ogni chitarra strazia e accompagna,
ogni piano rompe il silenzio gelido di una credenza sopita e velata. Una per
tutte: vita. quest’opera è vita di un uomo convinto di credere o di voler
credere, sfumature di moti distinti eppure confusi. Grace accompagna l’ascoltatore
in un percorso sdrucciolevole che frana ad ogni passo e che si fortifica alle
spalle, lungo la via del nulla, ma che illumina ogni passo di più la mente di
uno stanco e sofferente camminatore.
L’opera del Buckley minore alterna momenti di terribile
durezza ad altri consolatori e patristici (il passaggio diretto dal dolce e
religioso falsetto di “Corpus Christi Carol” alla tendenza rock anni ‘90 della
chitarra di “Eternal Life” ne è esempio lampante); Jeff padre-madre tenta di
mettere in musica una crescita spirituale che gli conferiva purezza di sguardo
e di parola. Ma parlare della musica in modo tecnico sarebbe una storpiatura
immane, analizzare allo stesso modo Grace e altri lavori, seppur dello stesso
genere, rappresenterebbe una preclusione significativa per la comprensione di
un’opera superiore e lontana da modelli strutturati in maniera conveniente. In questo
caso nulla è conveniente, nulla sembra essere posto in una tal posizione nel
tentativo di compiacere l’ascoltatore, ma l’intera composizione sembra sintesi
di anima e arte, trasposizione perfetta e filtrata dallo spirito stesso per
raggiungere una forma definitiva e completa nel complesso. Parlare delle
canzoni sarebbe dunque superfluo; elogiare la grazie di Grace, la bellezza
intrinseca di “So Real”, la commozione di “Last Goodbye” e la dolce purezza di “Lover,
You Should’ve Come Over” sarebbe inutile, ma un brano svetta ancora oggi tra
gli altri e non menzionarlo in maniera particolare potrebbe essere delittuoso.
“Hallelujah”
non è solo un pezzo, un susseguirsi di note, è un grido in poesia, un’irraggiungibile
interpretazione di un brano maestoso e superiore. Hallelujah non è un canto,
non una parola, un’esclamazione, un ritornello convincente, ma la storia di un
genere, quello umano, che da sempre ricerca la verità, ricerca risposte certe a
domande dubbiose o risposte confuse a domande fondanti, da sempre ricerca Dio
in un mondo che non lascia spazio alla Grazia della fede, che non crede di
poter credere che il genere umano possa infine trovare quello che cerca, e
quello che cerca si allontana sempre più. Un genere umano che cerca, ricerca,
ma intanto vive e ama e soffre e patisce e sopporta e uccide e sottera e ama di più. E l’amore
non è una marcia trionfale, ma un freddo e grave Hallelujah. E, come Agostino, Jeff
indica con dito insicuro la strada verso una Grazia che possa condurre l’uomo
a sopravvivere nella gioia questa terra sconfitta nell’orgoglio del santo.
Hallelujah rivive momenti di un passato che immaginiamo fu e illumina un futuro
ombroso che immaginiamo mai sarà. Non è il canto di ricerca e forse neanche di liberazione, che spesso si
crede a causa di interpretazioni controverse e contrastanti, ma un canto di tensione infinita alle porte di una quiete divina che s’adombra nella memoria perduta di chi non
vuol credere di credere. Hallelujah è la nostra storia titubante, è ognuno di noi, le nostre storie spirituali. Ogni respiro che prendiamo è Hallelujah. E ascoltare quest’ultimo respiro di
Jeff, tra malinconia e dispiacere per una perdita insensata che ha incensato il
mito che sarebbe stato in ogni caso, purifica, commuove e rinvigorisce l’uomo
adagiato nell’anfratto della quiete stanca e ignorante. Lo sorregge e lo spinge
verso mete dimenticate. La sua maestosa Grace, ogni tanto, fa venir
voglia di credere.
Well, maybe
there's a god above
But all i've ever learned from love
Was how to shoot somebody who outdrew you
It's not a cry that you hear at night
It's not somebody who's seen the light
It's a cold and it's a broken hallelujah
But all i've ever learned from love
Was how to shoot somebody who outdrew you
It's not a cry that you hear at night
It's not somebody who's seen the light
It's a cold and it's a broken hallelujah
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