FILM: Operazione U.N.C.L.E. (2015)
Cosa guardare quando non sei a casa e non sei in possesso
di una stabilissima connessione ADSL per
poter usufruire in maniera legale di servizi streaming a pagamento? Non rimane
altra scelta se non quella di rivolgersi al redivivo videonoleggio di fiducia. E
poi, tra un Pixels e un horror fantastico finché non lo guardi ecco che
rispunta Guy Ritchie, un dei registi che ancora oggi porta avanti una
personalizzazione del ruolo autoriale e una tendenza allo stile che era propria
della prima e forse della seconda Hollywood, ma che oggi sembra più vicina ad
un cinema di nicchia del del Vecchio Continente. Artista unico, spesso poco
considerato; ma quando il secondo lungometraggio è il cult Snatch, come potersi
superare? Come sostenere le aspettative? Operazione U.N.C.L.E. non riesce
infine a competere con il masterpiece del regista britannico, ma tiene testa a
quest’ultimo lavoro per larghi tratti.
Berlino, guerra fredda più fredda, gelida. Un agente
della CIA e uno dei KGB si scontrano in una travolgente e rocambolesca fuga nel
tentativo di acciuffare e ottener informazioni da una ragazza che sarebbe
legata in qualche modo ad uno scienziato tedesco, ex collaboratore forzato di
Hitler, presumibilmente rapito per le sue conoscenze in campo atomico. Sequenza
d’apertura che da sola vale svariati prezzi del biglietto per la fantastica
messa in scena molto british e per la regia fresca e mediata tra l’eccessiva
dovizia di particolari dei due Sherlock Holmes e l’immediatezza innocente dei
primi lavori di Ritchie. Da questo punto in poi si alternano momenti più
riusciti, quelli in cui le due spie entrano effettivamente in azione, ad atri
più statici e meno movimentati che si allontanano dal senso coinvolgente che
segna sostanzialmente l’intera pellicola.
Peccato per un paio di scelte nell’ultima mezz’ora che
avrei preferito venissero gestite in maniera diversa, anche per questioni di
coerenza con il resto dell’opera. Ultima scena invece amara sul momento ma
decisamente sensata in relazione a “Organizzazione U.N.C.L.E.” che cita in maniera
intelligente e lascia presagire un inutile seguito che non verrà in realtà mai
realizzato. VOTO: 7.5
FILM: Moneyball - L’Arte di Vincere (2011)
Altro film sportivo, che a noi americani coloniali
piacciono sempre, altro film con Brad Pitt, che da quando produce anche è un po’
ovunque. Ma stavolta è diverso. È diverso il modo di rapportarsi al tema
sportivo, diversa la narrazione, diversi gli intenti. Stavolta non si tratta di
rivalsa sociale e non siamo in presenza di carcerati bianchi e neri, ma ci
troviamo di fronte ad un film tecnico attento e preciso, incentrato sulla
figura di un manager talismano balzano inverso che si ritrova a dover costruire
una squadra di baseball optando per la via della parsimonia intelligente e
basandosi sui numeri. Tutto ruota intorno a delle cifre, e ciò è esplicativo
del tono e della scelte emotivamente mozzata dello sceneggiatore. Finalmente assistiamo
ad una sequela di eventi di contorno nei quali la componente sentimentale
rappresenta la cornice, o forse così ci vorrebbero far credere, alla luce del
finale in cui il personaggio di Brad Pitt prende in mano la situazione e la traghetta
verso una personale conclusione che non stona nel complesso ma non segue
fedelmente il filone mantenute strettamente dal film fino a quel momento. Ottime
le prove dei due protagonisti e interessante e coraggiosa la scelta di
invertire i canoni classici del sottogenere sportivo per costruire una storia
priva di grande pathos o di stucchevole melassa. VOTO: 8
FILM: St. Vincent (2015)
“Guardalo!” mi avevano detto. “C’è Bill Murray in formato
Oscar” mi avevano giurato e spergiurato. Alla fine l’ho visto e, magari
condizionato inconsciamente dalle dicerie dette in precedenza, sono rimasto
relativamente freddo (ma stavolta non gelido) nei confronti della storia, delle
interpretazioni e del film nel suo complesso. Fin dal principio ci si rende
conto delle pecche tecniche di una pellicola esaltata da alcuni, ma che voleva
inizialmente proporsi unicamente come commedia esistenziale, formativa e
cattolica adatta a tutta la famiglia. La trama vorrebbe in qualche maniera
emulare il più famoso e blasonato Gran Torino, ma né Bill Murray, per certi
versi, né il regista di questo filmetto è comparabile al Biondo del grande
schermo. La situazione prende però una via differente e più emotivamente toccante,
almeno sulla carta. Viene sviluppata maggiormente la storia personale del
protagonista, la quale smette di avere misteriosi elementi di interesse, ma
appare chiara e stereotipata sotto la luce delle stelle della ribalta. Da questo
momento in poi troppe situazioni, troppa confusione, troppa religiosità e
perbenismo interessato. Troppa finta bontà che permea ogni scena, ogni
intermezzo musicale (di quelli scadenti che non si vedevano dagli anni ’80) e
il finale. Un finale terribilmente dolce, forzato e fintamente religioso con la
questione della santità. Se poi a ciò si aggiunge che le scene che mi hanno
strappato un sorriso abbozzato si contano sulle dita di una mano di un reduce
dal Vietnam, ma di quelli che hanno lasciato un pezzo di loro nel paese delle
piogge, potete comprendere il giudizio finale. VOTO: 5
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