Arrivato al suo secondo lavoro, Pif sarà riuscito a bissare
il successo mediatico del primo o avrà lasciato intravedere i difetti di una
produzione molto poco cinematografica?
A tre anni di distanza dal primo amatissimo
“La Mafia Uccide solo d’Estate”, Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, torna a
dirigere un lungometraggio per il cinema mantenendo le caratterizzazioni dei
personaggi già viste nel precedente lavoro (Arturo Giammarresi e Flora
Guarneri), ma facendo un salto temporale all’indietro ai tempi della
liberazione della penisola italiana. Siamo a Crisafulli, ma siamo anche a New
York, un mondo globalizzato stretto dal terrore della Seconda Guerra Mondiale.
Filo conduttore Arturo, che viagga dal nuovo al vecchio continente per chiedere
la mano di Flora, ma anche Lucky Luciano, celebre boss mafioso, che opera dal caldo di
una cella per rendere più semplice il compito dei militari statunitensi, ma a
che prezzo? Ancora una volta Pif dimostra di tenere particolarmente alla sua
terra, andando ad investigare in prima persona in un ambito sempre
sottovalutato dal punto di vista storico. Se per capire cosa siamo diventati
dovremmo conoscere da dove veniamo, questo film ci riporta sui libri di storia
per insegnarci un altro capitolo sconosciuto, ovvero il nesso tra lo sbarco
degli alleati in Sicilia e la nascita e lo sviluppo della mafia in Sicilia.
Un film di critica socio-politica ha però bisogno di
esprimersi secondo un linguaggio cinematografico degno per poter risultare
efficace nel suo intento pedagogico. Ed è qui che “In Guerra per Amore”
comincia a perdere colpi e a mostrare lacune purtroppo controproducenti
rispetto alle premesse. La forma strutturata sul “Testimone” dello stesso Pif,
che nel primo film aveva fatto la fortuna del regista riuscendo a sposarsi
abilmente con il contesto e il tono con cui veniva raccontata la storia delle
stragi di mafia, qui sembra spesso fuoriposto, un linguaggio fintamente
allegorico e scanzonato che vuole nascondere senza risultati la durezza e la
gravità del messaggio di cui il film è impregnato. Uno stilema che purtroppo
non rende giustizia al materiale che realmente si celava nella sostanza dell’opera.
Altro punto a sfavore dell’opera di Pif è Pif, decisamente
lontano rispetto ai toni cupi e il crudo realismo della guerra. Un’interpretazione
che stona purtroppo con il resto della produzione e lascia intendere quanto una
preparazione attoriale sia necessaria per poter costruire una pellicola fondata
sulla veridicità storica e sulla naturalezza delle situazioni. Se nel primo
film l’interpretazione personale del regista riusciva a dare all’opera un tocco
di genuinità in più, se la sua voce fuori campo poteva fare da guida all’interno
di un’evoluzione della storia nel tempo, nel secondo caso l’elemento personale,
trattandosi si un’opera slegata dalla figura reale dell’autore, viene a
decadere e le invasioni delicate e ingenue del narratore risultano in larga
parte inutili. Con questa interpretazione Pif non riesce a trasmettere grandi
emozioni al pubblico, ma funge soprattutto da collante tra i personaggi
secondari e le loro storie. Sono infatti Andrea Di Stefano e Maurizio Marchetti
a rendere importanti alcuni precisi momenti.
Detto questo resta il grande punto a favore dell’opera di
PIf, ossia la volontà di raccontare un’altra storia. La storia è sempre stata legata
alle interpretazioni e alle necessità di sviluppo successive. Abbiamo dimenticato
molte storie in questa grande narrazione che probabilmente valeva la pena
raccontare e tramandare. Forse era necessario ricordare l’altra faccia della
medaglia dello sbarco degli alleati, come era necessario ricordare i nomi dei
morti ammazzati dalla mafia. Dimentichiamo troppo spesso quando non ci rendiamo
conto del collegamento tra il passato, il presente e il futuro. A quel punto,
quando ci dimentichiamo di ricordare, nasce la necessità di istruire, e in
questo il film non sbaglia.
A dispetto di un inizio claudicante, “In Guerra per Amore” monta
un crescendo dall’ironia fanciullesca al crudo realismo violento e abominevole
che culmina nel finale, in un trittico di scene riuscite, profonde e
coinvolgenti. Alla fine Arturo Giammarresi aspetta seduto su una panchina, aspetta
che qualcuno legga la sua storia, quella del luogotenente Catelli e della mafia
in Sicilia. Una storia che per settant’anni è rimasta seduta ad aspettare su
quella panchina. Un film da vedere per tutto ciò che va oltre la pellicola.
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