"Bones sinking like stones
All that we've fought for
Homes, places we've grown
All of us are done for
All that we've fought for
Homes, places we've grown
All of us are done for
We live in a beautiful world
Yeah we do
Yeah we do
We live in a beautiful world”
Yeah we do
Yeah we do
We live in a beautiful world”
Si apriva con questa sottile, bipolare “Don’t Panic” il
primo album dei Coldplay. Era il 2000 e Parachutes portava alla ribalta quattro
ragazzi inglesi dalla faccia pulita. Pulita come la pulizia che
contraddistingueva ogni brano, dalla già citata apertura a “Shiver”, dai
successi planetari “Yellow” e “Trouble” alla dolce “We Never Change”. Il primo
album non era spinto e sostenuto solamente dall’effetto novità, come spesso
accade, ma aveva in sé un’anima, una vita propria. Un complesso di situazioni
di vita che Chris Martin e compagni avevano infuso nelle parole e nelle note di
ogni brano. Questa essenza impressa nelle parti luminose e oscure del leggero
mappamondo richiedeva all’ascoltatore di mettere in gioco delle emozioni
personali per mescolarle autonomamente con quello che già c’era e ricavarne un’esperienza
unica. Perché è questo ciò che distingue la musica fruibile nella distrazione
mattutina da quella a cui affidare i propri giorni più bui e le giornate
indimenticabili, che nella vita sono appena quattro o cinque, il resto fa
volume.
I primi Coldplay erano questo, tra armonia e poesia, alla
ricerca di un rapporto diretto con l’ascoltatore, allontanandosi dal commercio
basso di emozioni tutte uguali. I testi di Parachutes riuscivano a tradurre in
musica l’interiorità dello stesso Martin, un’interiorità segnata da esperienze
complesse e contraddittorie. Parachutes era un flusso di vita e sofferenza, un
toccante inno alla meraviglia della vita passando tra i rovi in cui il tempo ci
incastra. Viviamo in un mondo meraviglioso, nonostante le brutture, nonostante
le difficoltà, la devastazione delle guerre, le morti innocenti, la perdita di
senso che viviamo. Nonostante tutto.
Se tutti questi meriti possono essere attribuiti a
Parachutes, lo stesso non può essere fatto per i lavori successivi, o meglio,
con il passare del tempo i Coldplay si sono gradualmente allontanati sempre più
dal modello vissuto attraverso il primo album per voltarsi alla produzione di massa.
“A Rush full of Blood” riusciva a migliorarsi dal punto di vista musicale, ma
non a toccare le stesse corde sensibili del primo. “X & Y” invece sembrava
riprendere appieno lo stile delle origini, seppur mancando alcuni colpi. La
vera svolta di è avuta con “Viva la Vida”, che cercava di spaziare maggiormente
dal punto di vista musicale con l’introduzione di nuove sonorità ed una
costruzione del brano rivista, ma abbandonava definitivamente il rapporto
diretto con lo spettatore. Nonostante la decisa svolta verso l’anonimato
emozionale, i Coldplay riuscirono, a mio parere, a produrre in questo periodo
una perla all’altezza dei primi fasti: “Death and allo of his Friends”. Una
ballata carica di coraggio, vita e amore per il mondo che sfocia in un travolgente
grido finale:
“I don’t want to
battle from beginnig to end
I don’t want a
cycle of recycled revenge
I don’t want to
follow death and allo f his friends”
Poesia che, con un semplice pronome personifica e allarga
il mostro della morte a tutto ciò che va contro il genere umano e la sua natura
iniziatica. Cedere alla banalità della ragionata morte artistica è esso stesso
un amico della morte. Processo che si concretizzò definitivamente con “Mylo
Xyloto”, album oggettivamente impersonale, condito da parole non
indimenticabili e da un duetto con Rihanna (“Princess of China”) che risulta
così lontano dalle sussurrate, impacciate e imbarazzate origini da sembrare
addirittura irriconoscibile per gli amanti dell’intimismo di Martin.
Con "Ghost Stories", almeno a mio parere, la band è
riuscita a ritrovare una via d’espressione originale e unica virando verso
sonorità elettroniche (“Midnight”) e personalizzando l’opera sulla figura del
cantante. Alla base di questo ulteriore cambio di rotta infatti la ricerca di
Martin di un canale di sfogo di alcuni sentimenti maturati dopo la rottura con
Gwyneth Paltrow. Un artista che apre le proprie vene per portarci nel suo cuore
calpestato e stritolato.
Arriviamo così all’ultimo “A Head Full of Dreams”,
scempio ormai noto a tutti. Un prodotto che dietro i beat accattivanti e i
rumori fastidiosi nasconde il nulla. Nessuna storia, nessun dialogo sopito da
risvegliare e amare, nessuna passione per l’eterna frizione umana tra gioia e
dolore, solo la superficiale voglia di agitare le folle al ritmo di sonorità
ripetute tutte uguali. Il passo esatto nel precipizio attorno al quale il
gruppo camminava pericolosamente da anni. È in questa flessione ideale che i
Coldplay hanno fallito, nell’aver mancato di ripetersi nella comunicazione
sincera di emozioni personali. Potremmo dedurre che questa sia la fine dei Coldplay,
soprattutto alla luce delle dichiarazioni che spalancavano la porta all’ultima
fatica. Ma, se c’è una cosa che ho imparato da questi ragazzi che ho amato alla
follia, è proprio il messaggio del brano che porterò sempre con me. “Everything’s not Lost”. Nulla è perduto, quando non vedete un futuro, quando attorno a voi
non trovate altro che densa oscurità, quando la notte sfiorate solo il muro
freddo nel silenzio. Nulla è perduto, ma nulla dura per sempre, e forse anche i
Coldplay hanno fatto il loro corso glorioso. Questo non cancella un passato
meraviglioso e indimenticabile, una storia d’amore per la vita che abbiamo
vissuto anche noi e alla quale ci siamo appassionati. Non cancella una parte
delle nostre vite, perché ciò che i Coldplay sono stati non andrà mai perduto.
Everything’s not Lost.
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